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Perché le vittime faticano a denunciare chi le ha abusate

Voglia di essere ascoltate, ma paura di non essere credute. Dietro le quinte dei tempi lunghi nel caso dell’arresto di don Leo

(Depositphotos)
13 agosto 2024
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“Al primo posto, non bisogna mettere la Chiesa, ma la sofferenza delle vittime di abusi sessuali”. Sono le parole dette al nostro giornale da Joseph Maria Bonnemain, vescovo di Coira e responsabile (dal 2002 al 2021) della Commissione ‘Abusi sessuali in ambito ecclesiale’ della Conferenza dei Vescovi Svizzeri. “In 20 anni ho ascoltato tante vittime di abusi, toccando con mano le ferite di tanti uomini e donne: l’80% non voleva né fare una denuncia, né ricevere un risarcimento, voleva solo che la Chiesa ascoltasse tutto il suo dolore”.

Sono parole che fanno riflettere alla luce del nuovo caso di don Rolando Leo, il cappellano del Papio, responsabile dell’Ufficio insegnamento religioso scolastico, docente e assistente spirituale della Pastorale giovanile diocesana sotto inchiesta per atti sessuali con fanciulli, coazione sessuale, atti sessuali con persone incapaci di discernimento o inette a resistere e pornografia. In questa storia, sconcertano i lunghi mesi trascorsi tra la segnalazione (a febbraio) di una vittima all’amministratore apostolico della Curia vescovile per approcci inadeguati da parte di un presbitero nei suoi confronti (e forse nei confronti anche di un minorenne) e il fermo di don Leo avvenuto il 7 agosto, al Collegio Papio di Ascona.

Molti non comprendono perché tanta lentezza d’azione e come mai un possibile molestatore abbia potuto continuare a fare gite coi ragazzi. Tutte domande lecite.

Dietro ai tempi, spesso lunghi, che precedono l’arresto ci sono più aspetti. Chi ha subito gli abusi deve poter maturare con convinzione il sofferto passo della denuncia, senza rischiare di fare un passo troppo lungo e poi fare magari marcia indietro. Mentre le istanze chiamate a gestire la denuncia, in particolare la Polizia giudiziaria, devono poter svolgere il loro lavoro d’inchiesta e simultaneamente salvaguardare altre potenziali vittime. È un delicato equilibrismo tra pazienza e urgenza.

«Effettivamente molte vittime cercano l’ascolto ma hanno paura di denunciare un abuso. Le ferite e il tradimento possono essere molto profondi. Il timore più grande è quello di non venir creduti. Se, ad esempio, l’abuso è avvenuto in famiglia, sanno che la rivelazione di quanto accaduto rovinerà tutti i rapporti. C’è chi impiega 10 anni e oltre per raccontare un abuso», ci spiega Myriam Caranzano, membro del Comitato scientifico ed ex direttrice della Fondazione Aspi (Aiuto, sostegno e protezione infanzia). Esperta in materia che l’amministratore apostolico Alain de Raemy ha voluto con sé durante un recente ciclo di incontri coi parrocchiani sul tema appunto degli abusi sessuali nella Chiesa.

Chi va piano arriva al risultato

C’è un detto tra i professionisti del settore: chi va piano ottiene risultati. «Fare pressione su una vittima per accompagnarla verso una denuncia può avere l’effetto contrario, quello di una chiusura totale. Sono decisioni sofferte, possono servire anche mesi per arrivarci», ci spiega ancora Caranzano.

In Curia a occuparsi della segnalazione è stata una delle due persone di contatto attive nella Commissione di esperti in caso di abusi sessuali in ambito ecclesiale che si avvale anche di professionisti esterni. Poi è seguito un ‘periodo di riflessione’, che aveva portato la presunta vittima (adolescente al momento dei fatti) a sporgere denuncia. Ciò è avvenuto a inizio aprile, e cioè due mesi dopo la segnalazione e quattro mesi prima che il presbitero venisse fermato.

Quel dovere etico di agire

In questo periodo, seppur indicato come possibile molestatore, il religioso ha potuto continuare a svolgere le sue attività, anche coi ragazzi. L’ultima in ordine di tempo è stata il pellegrinaggio in bici con la Pastorale giovanile a Medjugorje, terminato la sera del 6 agosto; ma in precedenza, negli ultimi mesi, c’erano state ad esempio anche una colonia in Valle di Blenio e un viaggio in Africa. Caranzano, che si trova all’estero, non vuole esprimersi sul caso specifico ma ribadisce l’importanza di evitare che ci siano ulteriori vittime. Chi è a conoscenza di una situazione di rischio per dei minorenni – aggiunge la specialista – ha un dovere etico e morale di intraprendere i passi necessari per evitare gli abusi.

Quando le vittime ascoltano altre vittime

Le vittime hanno diversi canali per farsi avanti. Direttamente alle autorità penali, al Servizio cantonale Lav per l’aiuto alle vittime di reati, alla Commissione di esperti della Diocesi o al proprio medico. Sarà istituito anche un nuovo gruppo di ascolto indipendente da ogni istituzione, fatto anche da vittime che ascoltano altre vittime di abusi sessuali nella Chiesa, come esistono già nel resto della Svizzera. “Saremo pronti nei prossimi mesi”, conclude Caranzano.

Un precedente

Nel 2004 fu arrestato don Casiraghi: procedura diversa, ma pure controversa

Un precedente che nel Locarnese aveva fatto versare fiumi d’inchiostro – oltre che per i fatti, anche per l’inchiesta condotta in modo maldestro e per le esternazioni del vescovo di allora, monsignor Pier Giacomo Grampa – era stato quello del parroco di Gordola, don Italo Casiraghi, condannato nell’ottobre del 2005 a sei mesi di carcere per ripetuti atti sessuali su una quattordicenne.

In quel caso, la denuncia arrivò direttamente alla polizia e alle autorità penali. Gli inquirenti avevano stabilito sin da subito l’esistenza di centinaia di messaggini sconci, telefonate erotiche e racconti pornografici. Tanto da far pensare a un giro di festini e orge in una stanza segreta nella casa parrocchiale. Ipotesi che in seguito si erano rivelate false: il tutto era frutto della fantasia bacata del sospettato.

Per spingere il prevosto di Gordola nella rete, nel gennaio del 2004 era stata usata come esca una ragazzina (con il consenso della famiglia, mossa dalla volontà di evitare altre vittime); a quel momento era sembrata l’unica possibilità per farlo inciampare. La trappola aveva funzionato, ma al momento di emettere la sentenza, la giudice Giovanna Roggero-Will aveva tirato le orecchie agli inquirenti: il sospettato era stato provocato e spinto a commettere un reato. Risultato: la pena era stata dimezzata.

Avevano sollevato un polverone pure le dichiarazioni dell’allora vescovo Grampa, che a pochi giorni dall’arresto del parroco, di fronte alla comunità di Gordola, aveva affermato: «Mi domando se per correggere chi stava sbagliando non si sarebbe dovuto intervenire in altro modo invece di costruire una trappola. E di adoperare adolescenti come esca. Mi domando (...) se non si sarebbe dovuto informare il vescovo e chiederne l’intervento prima di rivolgersi ad altri». Tra don Casiraghi (2004) e don Leo (2024), vent’anni di distanza e due procedure diverse: ma entrambe controverse e con uno strascico di dubbi e perplessità.

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