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L’ultimo abbraccio della montagna tra sfida e responsabilità

Più che raddoppiati gli incidenti in quota. Aumentano gli escursionisti. Non tutti sanno valutare pericoli che normalmente esulano dal loro quotidiano

Più che raddoppiati gli incidenti in quota. Aumentano gli escursionisti. Non tutti sanno valutare pericoli che normalmente esulano dal loro quotidiano

26 luglio 2024
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Sul ghiacciaio con scarpe da ginnastica, pantaloncini e senza piccozza. Una stupidità da social che se emulata può costare la vita, soprattutto quando a morire in quota sono anche gli alpinisti più quotati. Di vittime sulle montagne ne abbiamo contate già troppe: solo nell’ultima settimana tre ticinesi hanno perso la vita in tre diversi incidenti in Riviera (sopra i monti di Prosito), sul massiccio del Monte Rosa e sulla Via Alta in valle Verzasca. Tutti conoscitori della zona e/o alpinisti esperti a dimostrazione che lassù, tra terra e cielo, ogni passo va ponderato con attenzione per chi cerca libertà, bellezza ed emozioni, pace e silenzio, ma anche sfida e bisogno di innalzare i propri limiti. La montagna dà e prende. «Certo, si va in montagna anche per cercare il brivido e il fascino dell’avventura, ma si deve mettere in conto che il rischio zero non esiste. È proprio questa difficoltà, insita nella montagna e nell’andarci, che ha attirato generazioni di alpinisti», dice Matteo Giottonini, portavoce della Federazione alpinistica ticinese (Fat) che conta 32 capanne in Ticino. Vette bellissime e incontaminate ma anche pericolose. I professionisti lo sanno. Basti pensare che in 10 anni, secondo l’Ufficio svizzero per la prevenzione degli infortuni (Upi), il numero di incidenti in montagna in Svizzera è più che raddoppiato. Ogni anno in quota muoiono in media oltre 50 persone e si contano 40mila infortunati. Illusoria anche la messa in super sicurezza dei sentieri, continua Giottonini, perché in realtà basta una disattenzione in un passaggio delicato per non tornare più a casa.

A tradire è la neve ancora in quota

Dopo tanta pioggia, il sole invoglia a fare trekking per godersi la montagna dove però le incognite sono davvero tante tra neve, frane, slavine, repentino cambiamento del tempo e sentieri interrotti. Non tutti sanno valutare un pericolo che normalmente esula dal loro mondo. Ridurre rischi evitabili e imprudenze è certamente un primo importante passo, soprattutto quest’anno che a tradire molti escursionisti è la neve ancora presente in quota. «Dopo anni di scarse precipitazioni e alte temperature c’è meno l’abitudine di trovarla già a determinate quote, quindi, senza gli opportuni accorgimenti, il rischio è quello di scivolare. A determinate quote, direi dai 2’500 m in su è bene avere scarponi adeguati, ramponi e anche una piccozza. Insomma tutto l’equipaggiamento adatto all’escursione». Le classiche scarpe da ginnastica, tanto per intenderci, meglio lasciarle a casa.

Ti-Press

Importante è preparare l’escursione e sapere dove si va: «È bene studiare i percorsi usando i canali ufficiali, informarsi sulle condizioni della montagna non solo online, ma anche con una telefonata ai guardiani delle capanne, dove si trovano indicazioni aggiornate sullo stato della loro zona, dei sentieri, quelli aperti e percorribili, e quelli invece non transitabili». Con temporali frequenti e violenti, il terreno può essere bagnato e la difficoltà di un percorso può cambiare, in particolare su tratte ripide o passaggi su ‘piodate’ lisce. La campagna di prevenzione “Montagne sicure” ha un volantino con tanti suggerimenti utili scaricabile anche online. Inoltre in caso di temporali in montagna, la temperatura può calare in modo marcato e improvviso. È bene avere tutto per coprirsi.

Saper riconoscere i propri limiti

Solo avendo tutte le informazioni, dal percorso alla meteo, si possono prendere decisioni informate ed essere in grado di decidere quale rischio residuo si vuole eventualmente correre. Altro consiglio: «Saper riconoscere i propri limiti è molto importante in montagna», precisa ancora Giottonini. Oltre a una buona condizione mentale, serve una buona condizione fisica poiché le escursioni in alta montagna richiedono resistenza e agilità. A volte la decisione più saggia è tornare indietro. La montagna non scappa, resta lì anche domani.

Se agli inizi degli anni 2000 – leggiamo nel sito dell’UPI – si verificavano circa 17’700 infortuni l’anno negli sport di montagna e nel trekking, oggi se ne contano in media 40’000. Più che raddoppiati negli ultimi vent’anni. Oltre alla cinquantina di vittime svizzere l’anno, in media se ne aggiungono altre 25 provenienti dall’estero. Più di tre quarti delle persone che perdono la vita sono uomini, di tutte le fasce di età.

Tutti ingolfati sugli stessi sentieri

«Dopo la pandemia, è esploso il numero di escursionisti sulle nostre montagne in capanne e rifugi, di conseguenza per la legge dei numeri è inevitabile pure un aumento degli incidenti», spiega Giottonini. E spesso, gli escursionisti si ritrovano ingolfati sugli stessi sentieri, quelli più noti e più postati sui social, senza per forza verificarne la difficoltà e la praticabilità, al di là delle belle foto, prima di partire.

Un problema non solo svizzero. «Dopo il Covid, abbiamo osservato un’ondata di escursionisti improvvisati, assetati di aria pura, che si lanciavano in escursioni anche impegnative senza preparazione, senza un adeguato equipaggiamento, concentrandosi perlopiù nelle zone più note, congestionando di conseguenza i sentieri più fotografati. Abbiamo fatto e continuiamo a fare campagne di sensibilizzazione per promuovere la sicurezza e zone minori per distribuire meglio la massa della domenica. Abbiamo ottenuto qualche risultato ma gli incidenti sono ancora troppi», ci spiega Giacomo Benedetti, vice presidente generale del Club alpino italiano (CAI). Imprudenza, faciloneria e non conoscenza di meteo, territorio e sentieri, continua, sono nemici di un’escursione in sicurezza: «Purtroppo c’è ancora chi si avventura in montagna con le scarpe lisce, non pensando che se dovesse piovere, il rischio di farsi male è elevato»

La filosofia della capanna

Estranei la sera, buoni amici la mattina

Paesaggi incontaminati, panorami mozzafiato, silenzio, la sfida della vetta e la notte in camerata. Sono tanti i motivi che portano sempre più escursionisti in quota, anche per vivere l’esperienza unica che regala la vita semplice e inclusiva in capanna, dove si dorme e si mangia tutti assieme. Sconosciuti la sera, magari buoni amici la mattina successiva. C’è ancora chi chiede cappuccino e cornetto in capanna e si meraviglia se non li trova.

Polenta, promiscuità e sobrietà

La maggioranza però apprezza di scollegarsi da tutto per riconnettersi a valori più genuini. «Il rifugio o la capanna non sono strutture ricettive tradizionali, ma presidi del territorio con vari compiti di servizio. La porta è sempre aperta. Nell’ospitalità devono rimanere sobrie, essenziali nel servizio, altrimenti se ne snatura il senso. Intendiamoci, polenta e spezzatino possono e devono essere appetitosi», precisa Benedetti. Di certo, continua, non si va però per un piatto stellato ma per vivere un’esperienza unica di promiscuità, semplice ma gratificante, che nessun resort può dare. «Condividi tavolo e stanza con chi non conosci, dopo i primi 5 minuti di imbarazzo, quando te ne vai hai spesso allacciato nuove amicizie. Succede solo in capanna, ed è bello stare insieme, cantare, giocare a carte, guardare la luna e le stelle». Questa la filosofia del Cai, che rispecchia anche la realtà ticinese fatta di tante capanne e rifugi, molti non custoditi.

Il rifugio era una tappa, oggi è la meta

L’ultimo nato (sarà inaugurato sabato), è il bivacco ‘piano della parete’, in Val di Blenio, definito un gioiello della montagna a chilometro zero, incastonato nella Via Alta Crio nella Val Malvaglia, a 2’725 metri di altezza. Una struttura della Sat Lucomagno, accogliente ma spartana, senza riscaldamento, l’acqua solo all’esterno, con una toilette a secco e pannelli solari per un minimo di elettricità. Malgrado l’estrema semplicità, forse complice la novità, ancora prima dell’inaugurazione, c’erano oltre 200 prenotazioni e aumentano ogni giorno. «Vari rifugi della Fat in Ticino, oltre ai numerosi di vari patriziati, non sono custoditi e sopravvivono grazie al volontariato (merce sempre più rara). Chi arriva deve arrangiarsi. Molti apprezzano questa semplicità, alcuni forse più abituati alla vita cittadina faticano solo ad accendere la stufa. Il rifugio era una base di appoggio su una via o verso una vetta, ma oggi è sempre meno il caso e diventa sempre più la meta. Generando una richiesta di servizi che prima non c’era», precisa Giottonini.

I veri custodi del territorio

Molto però dipende dal guardiano (quando c’è) della capanna. «In alcune strutture purtroppo viene privilegiato l’aspetto commerciale, mentre gran parte dei rifugi in Piemonte, Lombardia mantengono il vero spirito originale con rifugisti che conoscono il territorio, valorizzano i sentieri, ti sanno accogliere, informare e sanno anche dire no, aprendo spesso nuovi orizzonti e scenari», conclude Benedetti.