Con le parole ha cercato di lenire le ferite di un’infanzia e una vita rubate. A un mese dalla morte, la ricordiamo con Anna Ruchat ed Esther Stella.
"perché la suora bianca mi punisce quando piango la notte. perché mi scuote fino a che sento divampare nella testa un fuoco? perché mi fa male, quando mi sento così misera, che devo piangere e gridare? perché tutti mi lasciano sola? perché questo fagottino umano urlante, sconsolato non può esprimersi? perché la suora diventa furiosa se sente piangere i bambini? ho i pannolini bagnati. Ho fame, sono sola" (da: ‘Silviasilviosilvana’, Rimini 1995).
Scrittrice, poetessa, autrice di testi di teatro, giornalista; Mariella Mehr è morta poco più di un mese fa (era il 5 settembre) a Zurigo, città dove era nata il 27 dicembre 1947. È morta a 74 anni, dopo aver vissuto una vita dura e drammatica, segnata sin da bambina, perché di ceppo jenisch, dal programma di "risanamento" ‘Kinder der Landstrasse’ che la Pro Juventute applicò dal 1926 al 1973 in Svizzera, una delle pagine più cupe della storia sociale e politica del Paese (più avanti, alcuni riferimenti minimi). Come la madre Maria Emma prima di lei, Mariella fu strappata alle sue braccia sin da piccolissima. Cresciuta in diverse case famiglia e in alcune strutture educative, fu vittima di violenze, stupri, internamenti, elettroshock. All’età di 17 anni ebbe il suo unico figlio, Christian, che l’anno successivo le fu tolto per inserirlo nello stesso programma. A sua insaputa, poco più che ventenne, subì un intervento di sterilizzazione. Quel distacco violento fu un ulteriore duro colpo che esacerbò ancora di più il suo rapporto con le autorità svizzere; fino a che decise, nel 1996, di trasferirsi nel borgo medievale toscano di Lucignano con il marito Hans Ueli Ellenberger.
Per tutta la vita Mariella Mehr si è battuta per denunciare pubblicamente i fatti drammatici di cui fu vittima insieme ad altri bambini in quasi cinquant’anni di storia, scrivendo della persecuzione subita dall’etnia jenisch, diventandone una delle testimoni più lucide e incisive. In un’intervista, Mariella raccontò di aver iniziato a scrivere a quindici anni, dapprima poesie. Le prime pubblicazioni giornalistiche arrivarono alla metà degli anni Settanta, mentre l’esordio letterario è del 1981, con il romanzo autobiografico ‘Steinzeit’ (‘Silviasilviosilvana’), dove l’autrice analizza il suo vissuto. La sua produzione letteraria è stata inevitabilmente segnata in modo profondo dalle esperienze drammatiche e dai soprusi subiti in giovinezza, portati sulle spalle come un greve fardello per tutta la vita.
In un’altra intervista, alla domanda su cosa sarebbe successo se la giovane Mariella non avesse trovato la scrittura, con schiettezza e laconicità aveva risposto che si sarebbe uccisa. "Se non altro sono diventata una scrittrice, che per quanto possibile sta dalla parte di coloro che sono stati disprezzati, non amati e derisi, e di quei saltimbanchi come me, che spesso l’esperienza e il destino portano in un modo o nell’altro alla follia, e la follia si trova alla fine di quasi tutti i nostri percorsi, così come al loro inizio c’è troppo spesso una diagnosi che prende letteralmente il sopravvento e che con un po’ di aiuto pratico riesce a incidere l’anima di un individuo finché questo non va a pezzi". Queste righe significative di un’esperienza individuale (e anche comune) sono estrapolate da ‘Uomini e topi. Eugenetica in democrazia’ (2020; da qui Ut), titolo dell’intervento tenuto da Mariella Mehr in occasione del conferimento della laurea ad honorem dalla Facoltà di filosofia dell’Università di Basilea nel 1998.
Tuttavia, confessa Anna Ruchat, «la scrittura non l’ha mai potuta liberare del tutto del ruolo di vittima che lei rifuggiva», la memoria del dolore la perseguitava comunque fuori dalle pagine dei suoi libri. Con Ruchat – traduttrice e scrittrice svizzera – ripercorro la figura letteraria di Mariella.
L’opera letteraria di Mehr si distingue per "la sua lingua impietosa, perché nutrita dalla violenza, la sua prosa asciutta, affilata, a volte addirittura urtante, soprattutto nei romanzi". I primordi la vedono impegnata in "opere teatrali e romanzi dedicati ad altrettante vittime di violenze e soprusi". Nel 1995 "uscirà il romanzo ‘labambina’, che segna un ritorno all’autobiografia e anche uno scatto stilistico: una sorta di espressionismo radicale, una lingua screpolata e a tratti sgrammaticata che Mehr inventa per il suo personaggio e che vedrà il suo seguito, non tanto nelle altre opere di quella che Mehr stessa definiva ‘la trilogia della violenza’, quanto nella sua produzione lirica". Successivamente, "con ‘Il Marchio’, Mehr ritorna a una narrazione più lineare, tradizionale, mentre il terzo libro che chiude la trilogia, ‘Accusata’ scritto nel 2002, si rivela un dissimulato ritorno al teatro".
"Silenzio e parola, vittima e carnefice, sono questi gli estremi entro cui si gioca l’equilibrio incerto, la linea precaria della scrittura di Mehr che continuamente mette alla prova se stessa e il suo lettore. Da un esilio vissuto nel corpo prima che altrove, Mariella Mehr con i suoi libri ha gridato, a volte ha sussurrato, ha imprecato con la sua voce roca da fumatrice, ma sempre nella lingua si è rimessa in gioco".
Sul filo dei generi, per la Schriftstellerin "il romanzo era la galera, la poesia la felicità di un istante. L’incontro con i grandi poeti dell’esilio – Paul Celan, Nelly Sachs, Antonin Artaud – ha fatto per lei della poesia un luogo protetto. Alla poesia di Mehr dà voce un soggetto certo ferito, a volte straziato, ma indiviso che cerca di continuo la propria integrità". Si potrebbe allora scrivere che con la prosa faceva sanguinare le sue ferite per liberarsi del dolore; con la lirica invece tentava di ricucire quelle ferite e trovare un po’ di sollievo. (Le citazioni sono tratte da un articolo di AR pubblicato sul Manifesto del 7 settembre).
Nel filo della conversazione telefonica con Ruchat, le chiedo del rapporto intessuto con Mariella: «Non so se sono stata sua amica. Se l’amicizia è connotata dallo scambio allora sì, sono stata sua amica. Ho preso molto e ho dato molto in una relazione che a tratti era quasi simbiotica, perché la scrittura di Mariella ti costringe a entrare dentro il suo dolore e a rimanerci per tutto il tempo di una traduzione. Se sono riuscita a starle accanto per tanti anni e per tanti libri è grazie a Ueli Ellenberger, che mi ha insegnato a non farmi risucchiare, a tenere quella distanza salvifica che non compromette il lavoro e soprattutto la reciproca fiducia. Così sono riuscita a tenere per tanti anni una relazione affettiva e lavorativa forte, con pause anche lunghe a volte, ma senza mai rotture. Il dolore di Mariella era sempre presente, l’equilibrio consisteva nel dargli il giusto spazio senza lasciarlo dilagare».
Un equilibrio difficile da mantenere come scrive la stessa Mariella: "La mia mente non è un conto vincolato su cui posso addebitare le nostre memorie, per poi continuare a vivere allegramente, libera da tutti i ricordi. Ognuno dei miei giorni è un tentativo nuovo d’imparare a vivere con questi ricordi, i Tuoi e i miei, e il ricordo della storia del nostro popolo, senza esserne distrutta. A Te non è stato neppure concesso di arrivare ai sessant’anni, logorata come eri da tutto quel ricordare, avvelenata dalle loro idee perverse di giustizia e di ordine". Queste righe sono tratte da ‘cara mamma’ (in Ut), una lettera che Mehr scrisse alla madre quasi sconosciuta, dopo la sua morte avvenuta a Zurigo nel 1983. Maria Emma Mehr era nata il 27 agosto 1924 nei Grigioni e come sua figlia e suo nipote venne strappata alla famiglia da ‘Kinder der Landstrasse’.
Kinder der Landstrasse
Lungo l’articolo si sono proposti un paio di stralci dalla lectio che l’autrice tenne all’Università di Basilea e che poi venne pubblicata. La versione italiana è introdotta da un esaustivo saggio ‘Eugenetica in democrazia’ del professore di Storia contemporanea all’Università di Roma Emmanuel Betta. Nel suo testo, il professore indaga il ruolo di Confederazione (autorità federali e cantonali), istituzioni religiose o benefiche e della psichiatria nell’operazione della Pro Juventute. Dagli anni Venti ai Settanta, l’agenzia federale, che lavorava su indicazione esplicita del governo, "organizzò, gestì e attuò il progetto Ente assistenziale per i bambini di strada – citiamo Betta –, con il quale intendeva contrastare il nomadismo (espressione, a loro dire, di una natura degenerata; ndr), attraverso politiche di sedentarizzazione forzata. Seicento bambini jenisch furono sottratti alle famiglie di origine, consegnati in affidamento a famiglie diverse o internati in orfanotrofi, cliniche psichiatriche o istituti penitenziari (…). Il progetto prevedeva il cambio di identità dei bambini (…), così come la rieducazione linguistica". Alle giovani donne veniva praticata la sterilizzazione. L’intervento, scrive il professore, si muoveva "secondo linee d’ingegneria sociale di ispirazione eugenetica (teoria che trovò sostegno culturale e istituzionale in Svizzera; ndr) e marchiate da prospettive interpretative radicate nel biologismo razzista". Un progetto che rubò infanzia e vita a centinaia di bambini che, nelle famiglie affidatarie e negli istituti, subirono violenze e abusi indicibili dai quali è impossibile guarire.
«Era una donna con una vita incredibilmente difficile, anzi la sua vita è stata tutta un disastro. Ma Mariella era forte e straordinaria, aveva molta empatia nei confronti dei più deboli». A raccontarmela in un grigio pomeriggio luganese è la novantenne Esther Stella, Stellezza come le si rivolgeva la scrittrice in lettere e cartoline (custodite con cura) o incontrandola di persona. La loro amicizia risale agli anni Ottanta e nacque grazie a un’amica in comune, Margherita, che all’epoca abitava a Origlio, dove si incontravano periodicamente: «Con me era molto affettuosa, però non aveva timore di dire le cose in faccia». Durante il nostro incontro, Esther mette sul tavolino davanti a noi la pila di libri (in tedesco) di Mariella, letti e annotati minuziosamente; insieme li ripercorriamo e mi racconta di questa sua lingua inventiva e viscerale o di quella volta che le aveva chiesto una traduzione, delle vacanze in Corsica… Da alcuni libri affiorano ritagli di giornale, con interviste e recensioni raccolte negli anni.
"Oh Stellezza, pensa un po’ a me stasera, forse così riuscirò a non comportarmi troppo stupidamente. Nel frattempo, salutami con affetto anche le palme innevate, tua Mariella".