Esploratrice e lucida osservatrice, negli anni 30, la ginevrina compie un viaggio nell’Asia Centrale per conoscere l’umanità e cercare sé stessa
Nei primi anni Trenta del secolo scorso, la ginevrina Ella Maillart sta per intraprendere le esplorazioni dell’Asia Centrale raccontate in ‘Vagabonda nel Turkestan’ e in ‘Oasi proibite’, da poco pubblicati da Edt. Spigolando tra i libri di un esiliato politico ad Alma-Ata, si imbatte casualmente in ‘D’homme à homme’ di Luc Durtain, dove legge una frase che compendia tutti i suoi pensieri: "Innanzitutto il mondo, poi nel mondo l’uomo, nell’uomo gli altri uomini. Triplice richiesta rivolta dallo scrittore alla pagina bianca, dal lettore alla carta stampata". Un pensiero guida che descrive il senso della scrittura, del viaggio e, in fondo, della vita per una donna che ha sempre tentato di placare un’invincibile inquietudine cambiando continuamente la forma del suo pensiero e della sua vita.
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Con la pipa e la mappa
Giocatrice di hockey, velista su barche inglesi e svizzere alle Olimpiadi, insegnante di francese in Galles e modella per artisti in Francia, comparsa cinematografica a Berlino ai tempi di Marlene Dietrich, archeologa a Creta, come il Siddharta di Hesse a ogni passo del suo cammino Ella Maillart impara qualcosa di nuovo. Educata a pensare con la propria testa dall’anticonformista madre danese, annoiata dalle convenzioni borghesi, poco interessata agli stanchi rituali dell’uomo occidentale, che usa la libertà di cui dispone soltanto per accumulare e consumare, sprecando energie, passione e tempo in occupazioni effimere, e soprattutto decisa a lottare per condurre il genere di vita che desidera, realizza che il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani, che finanzia, reinventatasi giornalista, inviando resoconti a quotidiani e riviste. Incuriosita dai racconti degli emigrati russi a Parigi e dalle scene di vita mongola ammirate nei film del regista Vsevolod Pudovkin, che a Mosca la prenderà sotto la sua ala protettrice, affronta prima il Turkestan e poi, in compagnia del cronista del ‘Times’ Peter Fleming (che ispirerà al fratello Ian il personaggio di James Bond), l’Asia Centrale: "Sto per abbandonare la civiltà e tutto ciò che essa comporta quanto a tesori d’arte, raffinatezza, comfort: letti, vasche da bagno, giornali pieni di notizie dal mondo intero, poltrone, posta, frutta, medici, biancheria pulita e calze di seta. Parto verso il Medioevo, o, addirittura, verso l’Età del Bronzo". Rinunciare alle comodità europee è una prospettiva che non la preoccupa, ma anzi la incuriosisce, la affascina, la fa sentire viva e persino vera, convinta che la stanzialità sia una forma illusoria di progresso, asfittica e mortifera, senz’altro inferiore al nomadismo: "Partire è per me come rivivere. Tutto ricomincia, vado incontro al nuovo, all’ignoto. Il sole si alza ed è la medesima sfera rossa che ieri tramontava. L’aria scintilla di mille goccioline di brina sospese e io procedo attraverso una realtà più bella di qualsiasi straordinaria magia".
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Fra le altre cose, era nella squadra sciistica svizzera
L’Asia Centrale è un mondo complicatissimo, che la sovietizzazione in atto fatica a comprendere, a contenere, a normalizzare. Le liturgie che ingabbiano la vita dell’homo sovieticus appaiono a Maillart in tutta la loro inutilità; le riunioni politiche, a cui viene regolarmente invitata, le sembrano eternamente uguali ovunque si svolgano: "Mi fanno pensare alle ruote da preghiera tibetane: necessità di sviluppare la cultura fra gli indigeni, di educare le masse, di edificare il socialismo grazie al livellamento delle classi. Il socialismo, soltanto il suo avvento salverà il mondo dal crollo capitalista. Ebbene, anche se esso è la nostra comune salvezza, bisognerebbe orchestrarlo con un po’ più di fantasia".
Oltretutto gli obiettivi irrealistici dei piani quinquennali e le bugie trionfalistiche dei funzionari di partito contrastano clamorosamente con il degrado e le ristrettezze della vita quotidiana. Le confidenze raccolte tra i locali disegnano una topografia della desolazione, da cui Maillart, che si domanda di continuo se gli sforzi degli uomini migliorino davvero la condizione umana, ha modo di dedurre il fallimento del laboratorio rivoluzionario: "Racconto ad Anna e Nikola che alla posta, dove mi ero recata per spedire un telegramma in Francia, l’impiegata mi aveva domandato se ero straniera e poi, sempre con lo stesso tono monotono che contrastava con le sue parole assai dure, mi aveva confessato di essere allo stremo, di non avere neppure di che nutrirsi, dato che i novanta rubli del suo salario le bastavano appena per mangiare nove giorni". Una miseria generalizzata che manda in rovina ogni proposito non solo di giustizia sociale, ma anche di convivenza pacifica tra cittadini liberati dal bisogno: "Forse non sapete", le raccontano, "che cosa hanno combinato qui. Poiché avevano impartito l’ordine di piantare ovunque il cotone, è passato l’aratro distruggendo tutti i piccoli canali delle nostre risaie, mantenute con tanta cura. In seguito, però, rendendosi conto della scarsa produzione delle nuove colture, hanno voluto che ripiantassimo riso su un terzo del territorio. Ma ora non è più possibile, i canali sono prosciugati... E c’è dell’altro: le chiavi, per esempio. Un tempo non se ne conosceva l’esistenza, tutto rimaneva aperto, case e negozi. Adesso ci roviniamo per comprare catenacci, ma il furto è sempre all’ordine del giorno".
La solidarietà tra la povera gente, i baratti, gli espedienti si rivelano necessari: desiderosa di capire e di proseguire il viaggio pur non avendo grandi mezzi a disposizione, Maillart scambia, regala, ascolta, fotografa, impara le lingue locali, si lascia ospitare dagli indigeni, si immedesima con l’ambiente. Solo così riesce a soddisfare il suo bisogno di capire le miriadi di vite diverse che compongono l’umanità e di collegare la sua vita a quella degli altri, sentendosi parte di un tutto. È il suo modo di fare i conti con un "inconnu démesuré" che non la spaventa, e che anzi prova a restituire nella pagina scritta elencando cose, persone e sensazioni del caos quotidiano in cui si immerge.
Come gli oggetti e i memorabilia raccolti nello chalet in cui avrebbe vissuto gli ultimi anni e nell’Espace Ella Maillart, entrambi a Chandolin, nel Canton Vallese, queste liste ricordano i reperti che Astolfo trova sulla Luna, dove è andato a recuperare il cervello di Orlando: "Dietro Shir Dar si apre una piazza rotonda dove sotto una cupola vi è un piccolo mercato. Là, tra una folla brulicante, si vende di tutto: copricapi ricamati, saponi, tabacco, lacci, tessuti, foulard, calze, nastri, frittelle untuose cotte sul momento, pezzi di pecora poggiati su un grande vassoio protetto da un coperchio di tela a forma di cupola, sorbetti che evocano splendenti cristalli di neve".
È proprio qui che vuole trovarsi, nell’irrimediabile incertezza di zone ostili alla logica e alla precisione europee, prima che le ultime vestigia di questa antica vita scompaiano definitivamente e che la farraginosa burocrazia dei colonizzatori russi complichi le già difficili esistenze di popoli che hanno sempre fatto a meno di timbri, passaporti, autorizzazioni, attestati e lasciapassare, seguendo uno stile di vita che la commuove: "Conosco già l’odore dei cammelli, il loro alito fetido di ruminanti, conosco la fermata alla sorgente d’acqua, la raccolta dello sterco per il fuoco e la gioia di un tè bollente; non ignoro la ricerca del bestiame che si è disperso pascolando, né il silenzio delle notti, quando gli occhi bruciano per il vento. Amo questa vita primitiva dove ritrovo la fame, che trasforma in solida gioia ogni boccone, la sana stanchezza, che dà al sonno una voluttà incomparabile, e il desiderio di andare avanti, che ogni passo realizza". Ma qual è il vero obiettivo di questo viaggio nell’Asia Centrale?
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Preparando l’equipaggiamento per il viaggio in Asia Centrale
Sebbene alle turbolenze geopolitiche dell’epoca dedichi digressioni dettagliate (molto interessanti le pagine sulla diaspora dei tedeschi del Volga) e pur avendo bisogno di certe informazioni per comprendere i contesti che attraversa ed eventualmente modificare la rotta, in realtà nell’ignoto Ella Maillart cerca sé stessa. E per trovarsi deve perdersi, come Ulisse nel Mediterraneo, sfrondandosi e alleggerendosi di orpelli e sovrastrutture lontanissime dalle sue esigenze interiori: "Non ho alcun desiderio di tornare. Mi augurerei che il viaggio durasse tutta la vita; nulla mi attrae in Occidente, dove, lo so bene, mi sentirei sola tra i miei contemporanei, le cui preoccupazioni mi sono divenute estranee".
Ed eccole, finalmente, apparire la meta, che la ripaga dei disagi e dei pericoli a cui è andata incontro: "In quest’immenso deserto, sotto questo cielo vibrante, sembra che l’animo si raccolga in sé, e per un istante, con vivida chiarezza, mi sento lontana, separata da tutto ciò che conosco, come se fossi giunta al fondo di me stessa". Lontana da un’Europa che ha conosciuto la prima guerra mondiale e sta per sprofondare nella seconda, Maillart vi ritorna in aereo: osservandola dall’alto, la trova piccolissima ("Parigi la sera è solo un enorme sciame di luci"), provando le stesse sensazioni che ai nostri giorni ci riferiscono gli astronauti appena rientrati dalle missioni spaziali, dopo aver avuto modo di riflettere sull’insensatezza e la stupidità di ogni conflitto.
Dall’alto i confini, i nazionalismi, i particolarismi le appaiono dannose sovrastrutture, mentre vede con chiarezza quell’unità del mondo che pochi anni dopo tornerà a cercare, fermandosi per cinque anni in India presso due maestri indù, ancora inquieta, ma ormai senza più dubbi su come desideri vivere: "Io sono tutta presa dalla curiosità per questo futuro incerto, dalla sensazione di essere ormai libera dagli ostacoli degli uomini; tutta presa dalla gioia di sentire che ciascun giorno, d’ora in poi, sarà nuovo, e che nessuno di essi sarà uguale all’altro; tutta presa dalla decisione di osservare, d’ora in poi, una sola regola: quella di camminare diritto davanti a me".