Se oggi i meriti della medicina narrativa sono riconosciuti è anche merito di opere come ‘Il narratore ferito’ di Arthur Frank, da poco in italiano
Come reagiamo alla malattia, un’esperienza che, in un modo o nell’altro, ci tocca direttamente e ci riguarda tutti? Una risposta possibile è che lo facciamo raccontando storie. Questa è la premessa di ‘The Wounded Storyteller’, un libro di Arthur W. Frank, professore di sociologia all’università di Calgary. A più di vent’anni dalla sua prima pubblicazione, che risale al 1995, al saggio viene ampiamente riconosciuta la preveggenza con la quale ha saputo anticipare alcuni approcci e tendenze, oggi ampiamente diffusi, che riconoscono alla narrazione una centralità in ambito medico-scientifico. Purtuttavia, nonostante la portata storica di questo saggio, fino a poco tempo fa il testo di Frank non era disponibile in traduzione italiana. Per fortuna, Einaudi ha sapientemente rimediato a questo vuoto, avvicinando il saggio ai lettori italiani grazie alla recente traduzione di Christian Delorenzo.
Che lo si voglia o meno, il ruolo della narrazione nella storia dell’umanità è imprescindibile. Lo storico Noah Yuval Harari lo afferma chiaramente quando, nei primi capitoli del suo ‘Sapiens. Da animali a dei’ (Bompiani, 2017), scrive che "non ci sono dei nell’universo, nessuna nazione, nessun denaro, nessun diritto umano, nessuna legge e nessuna giustizia al di fuori dell’immaginazione comune degli esseri umani". L’immaginazione, la capacità di raccontare, di condividere e di trasformare storie è uno dei motori della nostra civiltà. Oggi come ieri, culture diverse trovano la loro legittimità in narrazioni condivise che rendono possibile la coesione sociale e, in ultima analisi, anche il progresso materiale. D’altra parte, non è un mistero se esiste un filo diretto fra linguaggio e sofferenza, fra dolore e vita, fra arte e malattia, come suggeriscono artisti del calibro di Petrarca e Leopardi, il male di vivere messo in versi da Montale, le pennellate allucinate di Van Gogh, oppure la nausea metafisica scandagliata da Sartre.
L’arte, con una serie di altre discipline, ha il merito di ricordarci che il dolore e la malattia non riguardano solo il corpo, ma abitano anche la psiche. Sulla scorta di questa consapevolezza, e di alcune esperienze personali di malattia che lo rendono particolarmente attento alle dimensioni narrative del dolore, ne ‘Il narratore ferito’ (così il titolo dell’edizione italiana del saggio) Frank affronta il tema della malattia con le lenti della sociologia. E lo fa indagando una serie di questioni che potremmo riassumere in questi termini: come dare voce alla malattia quando questa scompagina la nostra quotidianità portando sofferenza e dolore dove prima c’era consuetudine e tranquillità? Quali narrazioni, quale linguaggio, quali parole e metafore, e quali immagini, ci consentono di raccontare in modo efficace l’esperienza della malattia, restituendone i dilemmi, le complicazioni e gli ostacoli che essa ci obbliga a riconoscere e, nel migliore dei casi, ci invita a fronteggiare? Come restituire un’esperienza che, spesso, resiste al linguaggio stesso, mettendo in crisi la propensione, tipicamente umana, di voler narrare l’esperienza, raccontando noi stessi e gli altri attraverso delle storie?
Secondo Frank, per esprimere il malessere le persone ricorrono a varie strategie: una delle più comuni consiste nel prendere in prestito le categorie della medicina ufficiale per circoscrivere e dare un nome al proprio disagio, affidandosi al potere curativo e all’ottimismo che circondano la medicina moderna. Purtroppo, o forse per fortuna, il potere della medicina non è illimitato; e per quanto il linguaggio scientifico si sforzi di essere preciso, esiste pur sempre una dimensione soggettiva dell’esperienza, e del malessere, che non può essere colta dalle categorie analitiche della scienza biomedica. A dispetto dell’ottimismo che circonda, in modo soffuso, la medicina moderna, l’esperienza ci insegna che la malattia, purtroppo, a volte si presenta in modo improvviso e inaspettato, scompaginando i punti di riferimento abituali. In queste circostanze, la sofferenza irrompe nella vita di una persona in modo caotico, mettendo in crisi la capacità di raccontare in modo chiaro, lineare, e coerente, ciò che il corpo e la mente sperimentano. Ecco che allora anche la narrazione di chi soffre tenderà a essere caotica, riflettendo non solo la crisi del corpo e della mente, ma anche quella di un linguaggio in perdita di punti di riferimento.
Questa crisi del linguaggio, secondo Arthur Frank, è però anche un punto di partenza per un racconto della malattia grazie al quale il soggetto si misura direttamente con la necessità di trovare la giusta misura narrativa per dare forma, esprimere, e condividere la propria sofferenza. Trovare il modo per raccontare la sofferenza e il disorientamento diventa allora una vera e propria ricerca di modalità comunicative che ci permettano di (ri)elaborare la nostra relazione con noi stessi, con la nostra sofferenza, ma anche con chi ci circonda. E questa ricerca di senso, sempre aperta a ridefinizioni, nel migliore dei casi si dimostra capace di dare una voce concreta alle proprie ferite. Perché in fondo, come sottolinea Christian Delorenzo nell’introduzione all’edizione italiana, "siamo tutti", chi più chi meno, "narratori feriti".
Il narratore ferito, pubblicato per la prima volta nel 1995, dà un grosso impulso alla progressiva formazione di un campo di studi interdisciplinare oggi noto come medicina narrativa. Ma cosa si intende esattamente con l’espressione medicina narrativa? L’abbiamo chiesto a Guenda Bernegger, docente e ricercatrice presso il Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale (DEASS) della SUPSI, impegnata a incoraggiare il dialogo fra medicina, etica ed estetica. "In un’intervista del 2014 apparsa sulla rivista per le Medical Humanites, a una analoga domanda Rita Charon – una delle fondatrici dell’approccio che va sotto il nome di medicina narrativa – replicò in questi termini: ‘Fatico a rispondere, e vi dico perché: perché questo è un campo ampio, profondo, complesso’". Prosegue Bernegger: "Nondimeno, possiamo dire che la medicina narrativa è una disciplina che mira a rafforzare, in particolare nei professionisti della cura, le competenze di ordine narrativo – ovvero, per dirla con la Charon, le ‘capacità di assorbire, interpretare e rispondere alle storie (di malattia)’, che sono cruciali per la relazione terapeutica, ma non sono oggetto del curriculum standard delle formazioni sanitarie. E questo può essere perseguito al meglio esercitandosi a ‘leggere in profondità’ le opere letterarie, come pure le opere della cultura largamente intesa. In primis, dunque, la narrative medicine offre strumenti per nutrire e rafforzare la formazione dei professionisti della cura, a vantaggio, in ultima istanza, dei pazienti, che possono vedere maggiormente riconosciuto e valorizzato il vissuto soggettivo che accompagna l’esperienza della malattia".
Rispetto al 1995, quando uscì la prima edizione di The Wounded Storyteller (Il narratore ferito) di Arthur Frank, in che modo la medicina narrativa ha acquisito maggiore centralità nel contesto medico? "Sicuramente – afferma Bernegger – oggi siamo ben oltre il narrative turn che nella seconda metà del secolo scorso ha orientato l’attenzione – delle discipline letterarie dapprima, delle scienze sociali poi, della medicina infine – verso la componente narrativa che intride l’esistenza. Ormai non possiamo più ignorare (Arthur Kleinman docet) che accanto alla sickness, alla malattia organica, vi è una illness, una malattia vissuta, che si lascia cogliere soltanto attraverso un racconto su di essa: la illness è proprio, come dice Frank, ‘a call for stories’, uno spunto e, al tempo stesso, un punto di partenza per una storia. È però solo in tempi più recenti che si è iniziato a riconoscere la necessità di offrire ai curanti formazioni specifiche in tal senso, proprio perché non è scontato che un medico sappia essere un buon co-narratore della storia del malato (eppure, su questo piano si possono fare molti danni!). Corsi e seminari di medicina narrativa sono ormai sempre più frequentemente proposti in ambito sanitario, anche se spesso ancora solo in forma facoltativa o complementare al programma di base".
Recentemente, Guenda Bernegger si è occupata di alcune attività legate all’ambito della medicina narrativa, che ci ha descritto in questo modo: "Grazie al supporto della Columbia University, sin dall’inizio della pandemia abbiamo avuto la possibilità di realizzare un seminario di medicina narrativa online in lingua italiana, fedele però al formato proprio ai workshop dell’ateneo new yorkese in cui la tradizione della narrative medicine si radica, con il caratteristico lavoro di lettura, confronto, scrittura e riflessione su opere letterarie, pittoriche, fotografiche, cinematografiche. Tra i facilitatori, anche Christian Delorenzo oltre a tre colleghe statunitensi e italiane. Aperto a tutti, il seminario ha assicurato la base per la creazione di una comunità formativa, che è stata di grande supporto per ciascuno dei suoi membri di fronte a un’esperienza come quella pandemica che, se ci ha spesso lasciati senza parole, sollecitava pur sempre un racconto. Su questo formato e sulle relative modalità didattiche si è modellato anche il percorso ‘Raccontare il tempo. Seminario di medicina narrativa’ che abbiamo proposto come formazione continua di breve durata SUPSI/DEASS, svoltosi attraverso una dozzina di appuntamenti nel 2021. In tale occasione, abbiamo scelto di riservare una particolare attenzione alla dimensione della temporalità – tra tempo dato, tempo vissuto e tempo raccontato – cruciale nella pratica di cura. Un ciclo limitato di incontri, che ha però lasciato un segno nei partecipanti e a cui auspichiamo di dare un seguito con nuove proposte".