Due storie, due persone che raccontano il dietro le quinte del mondo della ricerca bellinzonese
Da profuga in Svizzera a ricercatrice all’Irb di Bellinzona. Una storia davvero particolare, quella di Emina Dzafo, ma anche quella di David Jarrossay, l’esperto della ‘macchina spacca sangue’. Incontriamo entrambi allo stabile Bios+ a Bellinzona, dove lavorano 250 ricercatori dell’Istituto di Ricerca in Biomedicina (Irb), dell’istituto Oncologico di Ricerca (Ior) e dei laboratori di ricerca traslazionale dell’Ente Ospedaliero Cantonale (Eoc). Sabato 14 maggio (dalle 10 alle 14) ci sono le porte aperte, tutti sono invitati. Siamo andati a curiosare tra i laboratori trovando un mondo stimolante.
Dalla sua postazione, al primo piano, si vedono le giostre, tanta gente in serata arriverà a divertirsi. A soli due passi decine di ricercatori studiano, a volte fino a notte inoltrata i sofisticati meccanismi di difesa del corpo umano. Tra provette e campioni, provano e riprovano, quando una strada si chiude ne tentano un’altra. Emina Dzafo, 31 anni, dottoranda, originaria della Bosnia, è arrivata tre anni fa all’Istituto di Ricerca in Biomedicina (Irb) a Bellinzona. «Analizziamo i linfociti T, cellule del sistema immunitario che circolano tra sangue e tessuti. Sono molto importanti per proteggerci da agenti patogeni come ad esempio i batteri e virus capaci di farci ammalare».
Nel laboratorio dove lavora Emina, ci sono altri sette giovani ricercatori. Uno è iraniano, altri sono italiani e ticinesi, una collega che viene dalle Filippine è talmente assorbita dal suo lavoro, che non ci sente entrare. «Sono concentrata sulla ricerca, amo quello che faccio, e quando sono in laboratorio spesso perdo la nozione del tempo», dice. Emina Dzafo parla cinque lingue, scegliamo l’inglese, non si sente ancora completamente a suo agio con l’italiano. Vive a due passi dal laboratorio. C’è poco tempo per una vita sociale. «Sono arrivata nel 2019 e poco dopo è esplosa la pandemia, i ristoranti erano chiusi. Almeno i castelli li ho visitati. Frequento i colleghi, per via della pandemia abbiamo passato molto tempo tra noi», precisa.
Il suo legame con la Svizzera è davvero speciale. Da piccola ha vissuto ad Olten come rifugiata bosniaca ("Sono rimasta dai 3 fino ai 7 anni"). Anni dopo è tornata per uno stage in un’azienda di biotecnologia sempre ad Olten e da qualche anno è ricercatrice dottoranda all’Irb a Bellinzona.
«Considero Olten la mia città natale spirituale, alla fine della guerra, con mia madre e mio fratello, siamo rientrati prima a Mostar, dopo a Sarajevo in Bosnia-Erzegovina ed è stato un vero shock culturale, anche perché non parlavo bene il bosniaco». C’era molta povertà, edifici rasi al suolo, l’istruzione era un lusso. «Facevamo lezione in un supermercato, tutto era improvvisato, i tavoli erano scheggiati, d’inverno si gelava, eravamo 25-30 per classe, tutti o quasi con storie traumatiche alle spalle».
In questa desolazione avviene un incontro speciale: una brillante prof di biologia (si chiama Subhija Kamenica), che sa ispirare le giovani menti. «Nessuno investiva nell’educazione ma questa docente sapeva accendere la passione, un giorno ha portato in classe un rene di un animale e ci ha spiegato l’anatomia. Ci faceva piantare fiori nel quartiere. Le chiesi perché farlo, visto che la gente li calpestava. Lei mi rispose: ‘Allora li pianteremo di nuovo’. Questa frase mi è rimasta impressa. Lei è la ragione per cui ho studiato biologia».
A Sarajevo studia biologia. La vita la riporta ancora a Olten, dove fa il suo primo stage, alla microTech. Continua il master all’Università di Berna e per finire si sposta all’Irb per il dottorato di ricerca nel team della dott. Silvia Monticelli, specializzata nello studio dei meccanismi molecolari alla base dei processi immunologici. L’Irb fornisce un eccellente programma di dottorato per giovani scienziati.
Le sue giornate, Emina Dzafo, le passa isolando e analizzando i linfociti T. «Studiamo come si attivano e come si spengono. Si usano tecniche diverse, per alcuni test servono molte ore solo per preparare i campioni». Oltre al laboratorio ci sono seminari dove si presentano i dati e conferenze di esperti di fama mondiale. Ancora oggi – mi dice –, quando osservo il sangue al microscopio, mi emoziono. «La vita è così complessa e c’è così tanto da scoprire, grazie alla tecnologia possiamo fare analisi impensabili solo 10 anni fa».
Per investire così tante ore ed energia in un lavoro, bisogna avere una motivazione di ferro. «Mio padre ci ha abbandonati da piccoli, e quando avevo 13 anni mia madre è morta di tumore. Mio fratello ed io siamo diventati orfani in un Paese impoverito dalla guerra. Voglio fare la mia parte per contribuire a trovare delle cure». Non ha mai rinunciato ai suoi sogni, ha trovato degli sponsor lavorando duramente. Da rifugiata a ricercatrice dottoranda: «Non avrei mai pensato di arrivare dove sono ora, in una delle migliori università del mondo, facendo ricerche all’avanguardia».
A Bellinzona l’unico neo è che non essendo una città molto internazionale per gli studenti di lingua straniera non è sempre facile districarsi nelle varie necessità amministrative e quotidiane. «Nel tentativo di aiutare altri studenti ho fondato la Irb Student Association (Isa), che fornisce le prime informazioni pratiche ai nuovi studenti in arrivo».
Emina resterà a Bellinzona, all’Irb, ancora un anno, il tempo previsto per terminare i suoi studi di dottorato. La prossima tappa? «Dove sarò felice, dove troverò un sano equilibrio tra lavoro e vita privata, dove potrò ispirare e motivare un piccolo gruppo di ricercatori».
Viene da Marsiglia e fa parte delle fondamenta dell’Irb: c’è dall’inizio (dal 2000), il suo laboratorio è uno snodo, prima o poi tutti passano da David Jarrossay, dottore in immunologia e responsabile del servizio di citometria a flusso. Fa funzionare macchinari molto sofisticati e costosi, che analizzano l’immunofenotipo di qualsiasi tipo di cellula e ‘distillano’ una popolazione cellulare specifica. È un tecnico, ma ha anche conoscenze teoriche in immunologia (ha fatto un dottorato all’Università di Friburgo e ricerca sulle plasmacellule e cellule B). Lo incontriamo in mezzo ai suoi macchinari. L’ultimo arrivato è un analizzatore cellulare, si chiama Symphony S6.
C’è un gran viavai di ricercatori. Anche se è molto concentrato, l’esperto ci accoglie con un sorriso. «La ricerca immunologica e oncologica ad alto livello si fa sui dettagli. Servono macchine sofisticate, se non hai l’ultima versione e non stai al passo con l’evoluzione tecnologica, rischi di perdere terreno nella ricerca». Le macchine sono sempre più veloci e vanno sempre più nel dettaglio. I ricercatori portano il sangue o una biopsia che Jarrossay deve pulire, separare, ‘distillando’ le cellule che servono agli scienziati. «Ad esempio, dal sangue di un paziente guarito dal Covid abbiamo recuperato delle cellule B che producono anticorpi specifici in grado di bloccare il virus. Poi sono stati clonati». Una sorta di sofisticata macchina ‘spacca sangue’. Sorride e precisa: «Symphony S6 usa una combinazione di laser per analizzare le proprietà di decine di migliaia di cellule al secondo. Inoltre, isola dal sangue o da altri tessuti sottogruppi di cellule».
Vent’anni fa quando è arrivato a Bellinzona con sua moglie, in pieno Carnevale, non sapeva nulla del Ticino. «Era tutto nuovo, ma apprezziamo la tranquillità. Qui sono nati i nostri due figli. Professionalmente ho fatto un salto di qualità enorme. Amo la vita all’istituto, c’è un gran viavai di giovani, si respira un’atmosfera internazionale, vivace e stimolante. A volte nascono anche belle amicizie».