Nasceva l'11 marzo di cent'anni fa il grande musicista, compositore e arrangiatore argentino
Danza, canzone, ricerca strumentale: il Tango, nato fra l’umanità diseredata di Buenos Aires (fra gli emigranti italiani, tedeschi e di altri paesi d’Europa spintivi dalla necessità e carichi di passato, fra i gauchos scesi da cavallo e inurbati, trascinanti nella grande città la memoria della pampa), si è imposto agli Argentini come un’esperienza totalizzante capace di riassumere in sé tutta la ricchezza della loro cultura e della loro esperienza. Non si può parlare di regola, ma non è certo casuale che le situazioni di sofferenza, di oppressione o di emarginazione quando riguardano un intero popolo trovino voce nella musica, al punto da consegnare a questa e non ad altro l’autenticità della loro espressione. Gli zigani magiari e rumeni, i gitani spagnoli, i neri dell’America del jazz, ecc. documentano situazioni che, al pari del Tango in Argentina, individuano nella propria espressione musicale l’emblema della loro cultura, che nessun libro, nessuna poesia, nessun quadro potrebbero rivelare più compiutamente.
C’è anche qualcosa d’altro che accomuna il Tango alle esperienze citate: il loro nascere al crocevia fra i popoli, l’instabilità dei modelli culturali che vi confluiscono. La prima grande città che accolse gli zigani (i quali di per sé già convivevano con Ungheresi, Valacchi e altre comunità derivandone determinate caratteristiche) fu Vienna al tempo dello storico Congresso del 1815, la quale con ciò confermava il suo ruolo di crogiuolo di popoli il cui risultato fu la grande musica strumentale del classicismo di Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert. A Vienna la musica assurse a emblema della sua cultura proprio in quanto espressione più di ogni altra in grado di realizzare la sintesi tra i modi ‘nazionali’ che vi provenivano dalle varie componenti dell’Impero (dall’Italia, dalla Boemia, dall’Ungheria, dagli slavi del sud, ecc.). La stessa maniera degli zigani è all’origine dello stiramento ritmico tipico del valzer viennese. Parigi nell’Ottocento, che fu capitale letteraria per la Francia, fu capitale europea per la musica, come luogo d’incontro di esponenti delle varie tradizioni nazionali, dall’italiano Rossini, dal polacco Chopin, dal tedesco Liszt fino al russo Stravinsky nel Novecento, dando luogo a un’identità musicale di tipo cosmopolitico.
Il jazz, che non riguarda una sola città ma l’intera nazione americana non sarebbe pensabile al di fuori dell’integrazione culturale tra la comunità nera, i bianchi, gli ebrei e tutte le altre componenti della variegata realtà statunitense. La stessa disomogeneità etnico-culturale è caratteristica di Buenos Aires, per cui verrebbe da dire che le condizioni che portano la musica al progresso non siano quelle che la radicano a una forte stabilità stilistica, bensì quelle che la costringono al confronto, a ripensare la propria identità, a modificarla in funzione di una trasformazione sociale e culturale permanente.
L’Europa, col suo assetto di nazionalità stabilizzate, ha da tempo cessato di influenzare il corso della musica nel mondo. La ricchezza di storia di una città come Berlino ad esempio non basta a dotarla delle prerogative necessarie a determinare l’evoluzione di una nozione musicale che è possibile invece in città addirittura prive di passato ma dove interagiscono i vettori espressivi più disparati in conseguenza della realtà multietnica a cui deve far riferimento.
Buenos Aires ha avuto a ha ancora queste caratteristiche, benché Astor Piazzolla non abbia mai fatto riferimento esclusivo alla sua città natale. Emigrato con la famiglia a New York all’età di tre anni è là che impara a suonare il bandoneon. Quella distanza geografica gettò il seme di una distanza culturale, nel senso che la sua immedesimazione nelle forme del Tango non fu mai totale e gli consentì di compiere quella svolta che un porteño ignaro di ciò che capita fuori della sua città non avrebbe probabilmente potuto fare.
Alla radice di tale processo sta lo sganciamento del Tango dal canto, dalla canzone. Come canzone il Tango è tenuto a garantire una linearità: spezzare una melodia significa compromettere il testo. Sciolto il Tango dal canto a Piazzolla è stato possibile sviluppare ciò che nervosamente si agitava nel tessuto strumentale, cioè quella frammentazione del materiale tematico, quell’angolosità delle cellule componibili e scomponibili come in un puzzle, quell’energia ritmica che non deriva da un apparato percussivo (praticamente assente nell’orchestra di Tango) ma che si sprigiona dal modo in cui si confrontano e si sovrappongono le cellule tematiche diramate in tutte le parti in un continuo spostamento d’accenti. L’immagine sonora che ne deriva accumula con ciò una tensione unica, indescrivibile, che porta la protervia e la carica isterica del modello espressivo di base a un livello d’astrazione e d’universalizzazione supremo. Se nel 1979 il Concerto para bandoneon fu il risultato di un incarico di composizione, la ricerca di nuovi rapporti consentiti dall’impiego dell’orchestra sinfonica si presentava invece come lo sbocco naturale di una scrittura che nei confronti dell’elaborazione motivico-tematica non deve operare un adattamento ma vi riconosce la sua stessa modalità. Il Tango di Piazzolla è già sinfonico prima di adattarsi all’orchestra sinfonica: esso è talmente indissociabile dalla concezione contrappuntistica, in cui ogni parte strumentale è legata in un rapporto di necessità senza distinzione tra voce principale e accompagnamento, che nella sua versione sinfonica diventa l’esplicitazione finale di un obiettivo tendenzialmente sotteso nel suo Tango ‘da camera’.
Su questa base gli è stato possibile collegare direttamente la sua esperienza alla grande tradizione musicale europea e a rompere quel rapporto di contemplazione esotica che da sempre investe il Tango argentino. Se il Tango di Gardel ci appare esotico in quanto documenta una realtà a noi lontana, il Tango di Piazzola pulsa direttamente come espressione della nostra stessa realtà. La sua variante sinfonica in questo senso conta tanto quanto quella del suo ritrovare il canto con Milva, della sua capacità di inserirsi nel filone del jazz con Gerry Mulligan, del suo spaziare meditativo col Kronos Quartet. Certamente la sua esperienza testimonia una di quelle operazioni che si ripetono nella storia, del popolare che feconda la tradizione colta, come fu la maniera zigana rivisitata da Franz Liszt nelle Rapsodie ungheresi. In verità il paragone andrebbe fatto con Béla Bartók e con Zoltan Kodaly, poiché Liszt era rimasto a metà strada a contemplare esoticamente il mondo di quelli che chiamava i “bohémiens” in cui si sentiva coinvolto solo idealmente, mentre i moderni Ungheresi, esattamente come Piazzolla ha fatto, sono partiti direttamente dalle radici della loro tradizione. Come loro in queste radici egli ha individuato le regole di un linguaggio universale, capace di superare i limiti della geografia locale, di tenersi legato alla radice per succhiare dalle origini il nutrimento, ma diramandosi in fronde lussureggianti per cogliere il respiro del mondo.
“Se vuoi cambiare il tango è meglio che impari la boxe, o qualsiasi altro tipo di arte marziale“ (A. Piazzolla)
Nel Canton Ticino
Astor Piazzolla fu a Lugano tre volte. La prima per una registrazione per la Televisione della Svizzera italiana realizzata a colori nel vecchio studio di Paradiso nel 1974, prodotta da Carlo Piccardi in occasione dell’uscita di “Libertango”, il suo primo disco realizzato in Italia. La seconda col suo quintetto il 13 ottobre 1983 al Palazzo dei congressi. La terza in un concerto tenuto al Teatro Apollo l’11 dicembre 1989 con l’Orchestra della RSI diretta Bruno Pizzamiglio nell’esecuzione del Concerto para bandoneon e di altri brani suoi in versione sinfonica. In quest’ultima occasione Carlo Piccardi realizzò un’intervista all’artista che è possibile ascoltare accedendo al sito della Rsi (www.rsi.ch/musica/documentari o www.rsi.ch/musica/artisti). RED
Dal concerto del 13 ottobre 1983 al Palazzo dei Congressi di Lugano:
“La mia musica contiene tutto il tango primitivo, dai bordelli fino a oggi, si percepisce. Oltre a quella musica puoi sentire della buona musica. Ma penso che sia nel mio sangue. Sono un uomo di tango” (A. Piazzolla, 1992)
di Daniel Ritzer
Capita spesso che vita e morte si intreccino. Oggi, mentre celebriamo i cent’anni dalla nascita di quel genio che fu Astor Piazzolla, la mia memoria mi porta dritto a una serata invernale di Buenos Aires, esattamente il 15 giugno 1996. In quel periodo, sotto il nome di ‘Astortango’, per tre giorni si rendeva omaggio al grande compositore marplatense (così vengono chiamati quelli che nascono a Mar del Plata) deceduto quattro anni prima. Erano in tutto tre serate di concerti, la prima dedicata al rapporto di Piazzolla col jazz. Per l’occasione niente meno che Gary Burton e Chick Corea insieme al figlio di Astor, Daniel Piazzolla. La seconda, quella meno gettonata, riguardava l’influenza di Piazzolla sul continente americano. La terza, il piatto forte: ‘Piazzolla porteño’ (porteño è il cittadino di Buenos Aires, arrogante e sussiegoso secondo gli abitanti delle altre ventitré province del Paese). Da buon porteño l’ultima serata non me la volevo perdere. Così ho convinto mio padre ad acquistare i biglietti con largo anticipo per assicurarci il posto in platea. Il programma era veramente ricco, riuniva sul palcoscenico tutti i grandi musicisti che avevano accompagnato Astor in buona parte della sua carriera: il poeta Horacio Ferrer e il quinteto composto da Néstor Marconi (bandoneón), Gerardo Gandini (piano), Fernando Suárez Paz (violino), Oscar López Ruiz (guitarra) ed Héctor Console (contrabasso). In più le voci di Amelita Baltar, Nelly Vázquez, Jorge Sobral, José Angel Trelles e Raúl Lavié. Il meglio del meglio.
Il caso vuole che quel freddo sabato di giugno fosse anche il penultimo giorno di quella che probabilmente è stata la settimana più triste della mia vita: il lunedì 10, poco prima dell’alba, mia madre aveva smesso di lottare contro la sua malattia dopo dieci anni di battaglie, il cancro l’aveva portata via. Ma il biglietto per l’ultimo concerto di ‘Astortango’ ce l’avevamo già. Quindi, nonostante il dolore, ho insistito con mio padre per andarci lo stesso. Anche perché (posso dire oggi, venticinque anni dopo) soffrire ascoltando Piazzolla è un bel modo di soffrire.
È difficile dire quanto ho pianto quando, verso la fine del concerto, Gandini si mise a suonare al piano l’introduzione di ‘Adiós Nonino’. Quell’addio che Piazzolla aveva composto per salutare suo padre, Don Vicente. Chi lo ha mai sentito quel brano sa di cosa sto parlando: a mio avviso le emozioni che riesce a suscitare sono paragonabili soltanto ai colpi alla tastiera di Keith Jarrett nel suo ‘Köln concert’.
Cosa fosse Mar del Plata nel 1921 posso solo immaginarlo. Mi aiuta il fatto che laggiù, cent’anni dopo, tante cose sono ancora le stesse (il che non per forza è positivo).
Marzo al sud del mondo è la fine dell’estate, quel 11 marzo di cent’anni fa segnò anche l’inizio di una vita prodigiosa. Astor Piazzolla rivoluzionò il tango e la musica in generale, non c’è alcun dubbio. Ma soprattutto Astor regalò all’Argentina le note giuste per un popolo che vive nella malinconia.
Bandoneón, sorta di fisarmonica nata per la musica sacra, poi divenuta strumento fondamentale nelle orchestre di tango. Al ritorno a Mar del Plata, forte anche dello studio del pianoforte, il 15enne Piazzolla si fa le ossa in molte di queste formazioni prima di trasferirsi, 17enne, a Buenos Aires. Anche durante i successivi studi parigini e negli ulteriori soggiorni nella Grande Mela, il giovane musicista lavora a un nuevo tango che crea scompiglio tra i puristi del genere e che gli varrà l'appellativo di ‘assassino’, più precisamente ‘El asesino del Tango’. Ma solo in Argentina, perché Europa e Stati Uniti applaudono sin da subito all'innovatore. Fondato nel 1960, lo storico Quinteto Nuevo Tango sarà destinatario – nella formazione violino, chitarra elettrica, pianoforte, contrabbasso e bandoneón – di molte delle sue 750 composizioni. Il nuevo tango di Piazzolla include anche altri strumenti mai utilizzati nel tango tradizionale, come l'organo Hammond, la batteria, il basso elettrico. L'album ‘Libertango’, registrato a Milano nel 1974, nell'Italia sua seconda patria, li contempla tutti. Di quelle session, e di quelle per l'album con Gerry Mulligan, ‘Summit-Reunion Cumbre’, sono testimoni viventi il bassista Pino Presti e il batterista Tullio De Piscopo. RED