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La ricetta romanda contro la violenza sbarca in Ticino

Spezzare il ciclo con atelier teatrali, street art, incontri con la polizia. Intervista ai responsabili dell'innovativo progetto 'Face à Face'

Quella a Pazzalino a Lugano e quella in Viale Stazione a Bellinzona: le ultime due risse in ordine di tempo in Ticino (Foto Ti-Press)

Spezzare il ciclo con atelier teatrali, street art, incontri con la polizia. Intervista ai responsabili dell'innovativo progetto 'Face à Face'

10 giugno 2020
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Viale Stazione a Bellinzona sabato scorso, Pazzalino a Lugano un mesetto fa. Sono solo gli ultimi in ordine cronologico episodi di violenza giovanile capitati in Ticino, almeno fra quelli mediatizzati. Non è solo una percezione: i reati di violenza giovanile sono in aumento (cfr. infografica). «Ma la violenza non è solo quella fisica – osserva Tessa Pidò –. C’è quella psicologica, economica (intesa come furti o danneggiamento, ndr), verso sé stessi: si manifesta in varie forme».

La pedopsichiatra è la coordinatrice del progetto Face à Face Ados© (Faf) Ticino. Con i colleghi psicologi Fabia Cereghetti e Massimiliano Chastonay – e un’estesa rete di supporti – sta dando vita da circa un anno alla variante locale di un programma che a Ginevra esiste dal 2008. Obiettivo: agire direttamente sugli adolescenti che commettono violenza per interrompere il ciclo. Li abbiamo incontrati nella sede provvisoria all’Ufficio per l’aiuto e la prevenzione di Paradiso.

Face à Face nasce a Ginevra. Chi l'ha ideato?

Madame Claudine Gachet. È un'infermiera psichiatrica che successivamente si è formata come terapeuta di coppia e famiglia. Crea l'associazione Faf inizialmente rivolta a donne con comportamenti violenti, allargando poi il progetto nel 2008 agli adolescenti: un modello riconosciuto dall’Ufficio federale di sanità (e conseguentemente dalle casse malati, che infatti rimborsano i partecipanti a 'Face à Face', ndr). Dal 2015 esiste un terzo programma rivolto alle famiglie. In Ticino stiamo implementando quello rivolto unicamente agli adolescenti.

In Ticino com'è arrivato?

Sono stati Marco Galli e Anna Vidoli dell'Ufficio del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani (Ufag) del Dipartimento sanità e socialità (Dss) a selezionare il programma, nell'ambito della Strategia cantonale di prevenzione della violenza che coinvolge i giovani (0-25 anni), proponendolo a noi e ad altri servizi sul territorio. L’obiettivo della strategia è avere una panoramica sul fenomeno della violenza a 360 gradi, valutare il tipo di prese a carico esistenti e portarne di nuove, nonché implementare tutta una serie di iniziative e progetti di prevenzione in ambito famigliare, scolastico e dello spazio sociale. Lo scopo generale poi è prevenire questa violenza, riducendola e rafforzando il senso di sicurezza. Per questo hanno pensato a 19 misure, noi siamo una di queste. Nel settembre 2017 hanno preso contatto con l’associazione Faf di Ginevra. Abbiamo fatto la formazione con Madame Gachet e anche lei è venuta in Ticino a supervisionare il primo gruppo. Ed è stata molto chiara: il modello va mantenuto, avendo dato prova di efficacia. 

In cosa consiste questo modello?

È un progetto mirato ai giovani dai 13 ai 20 anni. Ma non tutti: solo quelli che hanno già commesso una qualche forma di violenza. È un programma sì di prevenzione, ma allo stesso tempo anche terapeutico: si parla di prevenzione terziaria. Il nostro lavoro consiste anche nel far confrontare i giovani sulle conseguenze di quel che hanno fatto. In generale, Faf si basa su quattro pilastri. Innanzitutto, ciascuno di noi può avere a un certo punto della propria vita un comportamento violento, ma questo non ne fa una persona violenta. Secondariamente, i programmi sono differenziati come lo sono le esigenze e le prese a carico. Inoltre, la violenza viene trasmessa da una generazione all’altra e quindi è importante andare a spezzare questo ciclo. Infine, consideriamo anche i tentativi di suicidio come atti di violenza rivolti a sé stessi. È un modello innovativo rispetto ad altri progetti in Ticino, anche perché il tema della violenza tocca vari aspetti.

Innovativo, perché?

Intanto perché sono coinvolti tre dipartimenti (Dss, Educazione, cultura e sport e Istituzioni). L'approccio è innovativo: combina una parte terapeutica con una molto più espressiva, corporea, psico-pedagogica. Ci siamo resi conto negli anni che una parte degli adolescenti sfugge un po’ alle sedute classiche: in certi casi un setting psicoterapeutico non è una risposta adeguata. Quando un ragazzo agisce violentemente, significa che la capacità di mentalizzare in quel determinato momento è venuta a mancare: prima fa, poi riflette. Per questo bisogna proporre degli strumenti mirati che gli permettano di vivere esperienze relazionali positive. Questo sistema permette di tenerli agganciati molto di più e di monitorarli per un anno. Si tratta inoltre di uno dei pochissimi progetti rivolti agli autori, al fine soprattutto di evitare ricadute e di favorire la loro inclusione nel rispetto delle regole sociali.

Concretamente, com'è strutturato Faf?

Tutto parte dalla segnalazione. Chiunque può farlo: dal direttore della scuola al docente di sostegno, dal genitore al magistrato, dagli istituti ai foyer, dal datore di lavoro all’assistente sociale. Volendo anche il ragazzo stesso. Durante un primo incontro cerchiamo di capire subito qual è la problematica. A questo colloquio invitiamo a partecipare la famiglia, come le persone coinvolte nella rete. E tutti firmano un contratto, minorenni compresi. Sebbene abbia una valenza simbolica è molto significativo e per loro responsabilizzante.

Un contratto?

È un accordo terapeutico formale con delle condizioni chiare. Noi abbiamo le nostre e spesso sono la scuola o il datore di lavoro a porne di ulteriori. Si dice che i giovani non possono fare assenze ingiustificate, che devono avere un abbigliamento e un atteggiamento adeguati. Ad esempio, si spiega loro che possono esprimere il dissenso, ma devono imparare a farlo in modo adeguato. Se rifiutano di firmare ci sono delle conseguenze, soprattutto nei casi coatti (ad esempio quelli inviati dalla Magistratura, ndr). Il programma è molto intenso e strutturato, con delle date d’inizio e di fine. I giovani si vedono già in un percorso. Abbiamo molta pazienza, ma fin da subito mettiamo in chiaro che sulle regole non cederemo: patti chiari e amicizia lunga. L'accordo assume quindi un valore di impegno reciproco.

È un programma severo quindi...

Come direbbe Madame Gachet, rigoroso più che severo. La modalità è abbastanza autorevole ma utile, permette di trovare una struttura a chi sta attraversando un periodo disorganizzato. Ci è capitato di dover allontanare dei ragazzi durante un incontro. È servito: sono tornati più motivati. È un programma con momenti emotivamente pregnanti che vogliono agire in profondità sulla percezione di sé e dell’altro e quindi sul comportamento.

Contratto firmato, e poi?

Dopo la fase di valutazione, si inizia coi moduli. Il primo prevede tre giorni intensivi in gruppo misto, che hanno l'obiettivo di stimolare le riflessioni, i confronti e la gestione delle emozioni. Nelle cinque settimane successive i gruppi si dividono e si affrontano temi più specifici in sedute settimanali da due ore. Si parla di violenza agita e subita, di autostima, dell'identificazione delle emozioni, dei pensieri, dei comportamenti e delle loro conseguenze. Il terzo modulo è una giornata conclusiva di nuovo con lo stesso gruppo misto iniziale, nella quale è organizzato un atelier terapeutico di arti marziali, che da un lato mira a rafforzare la fiducia in sé e negli altri e dall'altro. A distanza di due mesi e poi di altri sei sono previsti un bilancio di percorso e uno finale. Sono di nuovo colloqui personalizzati, col giovane e la sua rete: le stesse persone che hanno firmato il contratto. Si valutano ricadute, recidive, qualcosa ancora su cui lavorare. Se vediamo che c’è la necessità di fare altro, una psicoterapia o anche un’attività sportiva ad esempio, lo indichiamo. Durante tutto questo periodo sono inoltre previste cinque sedute individuali col ragazzo o con la famiglia. In totale, Faf dura circa un anno.

Possono parteciparvi tutti i ragazzi fra i 13 e i 20 anni?

No, sono esclusi i ragazzi che hanno commesso violenza sessuale, quelli che presentano patologie psichiatriche gravi a tal punto da comprometterne la lucidità. E infine i tossicodipendenti attivi: se qualcuno arriva a un incontro dopo aver bevuto o consumato sostanze stupefacenti, lo rimandiamo a casa. Il programma però va portato a termine: è stato firmato un contratto. Significa che se si salta un incontro lo si deve recuperare. Vediamo quindi ragazzi coinvolti in risse, ma anche altri che hanno un comportamento verbalmente violento, che insultano ad esempio i docenti a scuola.

È un programma dove si lavora principalmente in gruppo...

Giusto, in gruppi da un minimo da 4 a un massimo di 8 partecipanti, ma effettuiamo anche delle sedute individuali. Noi siamo sempre presenti e si lavora comunque costantemente anche con la famiglia. Sono gruppi molto eterogenei. Non vengono smistati: l’idea è di ricreare quel che succede in società, con 14enni che frequentano 17enni. Spesso quelli più grandi portano la propria esperienza e le loro parole hanno più valenza di quelle degli adulti sui più giovani. Diventano protettivi verso i più piccoli. Poi magari c’è il bullo di scuola media con il ragazzo più grande che invece ha subito il bullismo: si creano dinamiche interessanti e costruttive. Durante il secondo modulo vengono poi suddivisi fra maschi e femmine. Un'idea di Madame Gachet, che nasce dalla sua esperienza: si è resa conto che in tal modo si eliminavano più rapidamente determinate inibizioni legate alle questioni di genere o all’emotività. Le attività sono comunque esattamente le stesse.

Sono previsti atelier di teatro, street art, incontri con la polizia... A cosa servono?

Non si tratta di una classica psicoterapia: ci sono attività psicoterapeutiche molto dinamiche, che portano i ragazzi a sperimentare. Durante l'attività teatrale ad esempio, lo scopo non è che diventino bravi attori ma che mettano in scena ipotetiche situazioni nelle quali scatterebbe la violenza, fermare la recita nel momento in cui questo potrebbe avvenire e riflettere su quel che potrebbe accadere, sulle conseguenze. Lo scopo di ognuna di queste attività è lavorare sulla violenza e sulle possibili alternative. Molto importante è l'atelier con la polizia. C’è una prima parte di confronto, con la possibilità di esporre dei dubbi, capire dei meccanismi. Poi c’è una seconda parte dove pure mettono in scena un’aggressione, mettendo l’accento su cosa succede alla vittima, all’aggressore. È utile per capire che alla violenza non si risponde con violenza. Li si mette a contatto con chi porta una divisa e rappresenta l’autorità. Quando sentono nominare la polizia, si irrigidiscono, invece così si promuovono un contatto positivo e una visione positiva. In generale sono attività che servono per saper riconoscere le proprie emozioni, dalla rabbia alla paura, e saperle gestire.

Faf in Ticino dura da circa un anno, è già possibile stilare un bilancio?

È prematuro. Stiamo facendo i bilanci finali con il primo gruppo, partito un anno fa. Abbiamo qualche dato ma non sono statisticamente rappresentativi. Per intanto si può dire che, come a Ginevra, la stragrande maggioranza sono maschi, che l'età più rappresentata è sui 15 anni e che la maggior parte delle segnalazioni sta arrivando dalle scuole. Per alcuni casi c’è stato un grande sviluppo positivo, i ragazzi hanno preso coscienza e hanno modificato i loro comportamenti. I primi risultati sono incoraggianti.

Si tratta di un progetto pilota. E poi?

Esatto. La fase pilota terminerà a fine anno. Spetterà poi alla Direzione della Strategia stabilire se continuerà o meno. Qualora dovesse andare avanti, confidiamo di disporre di uno spazio preposto. Oggi gli incontri preliminari li facciamo qui (a Paradiso, ndr) e le attività di gruppo all'Archivio di Stato a Bellinzona. Le premesse per una riconferma sono comunque molto alte.