La nostra società è concepita sui beni materiali, sulla crescita economica, sulla competizione e, in certi contesti, anche sulla prevaricazione. Guadagnare soldi e produrre ricchezza hanno il potere di giustificare le cose. Nei fatti, a prevalere sono le convenienze nazionali e il credo dei grandi gruppi industriali ̶ anche nel contesto della cosiddetta transizione energetica, dove la difesa dell’ambiente non è prioritaria se diminuiscono i profitti. Personalmente la chiamerei piuttosto transazione energetica. Oggi il greenwashing, l’ambientalismo di facciata, sembra essere una pratica diffusa: in politica è un alibi e una maschera, in economia un’operazione di marketing: ci si colora di verde per acquistare credibilità e vendere meglio.
Mi intriga sempre più la somiglianza tra il percorso di arricchimento di pochi (a livello socio-economico) e la scomparsa di biodiversità (a livello di ecosistema). Più che una somiglianza, mi sembra ci sia una correlazione tra i due fenomeni: una monocultura si afferma a scapito di altri tipi di coltivazioni, e dunque di risorse utili agli usi più diversi, creando però scompensi; una società finanziaria particolarmente intraprendente si permette iniziative audaci in un dato comparto economico (industria automobilistica, alimentare, edilizia, energetica), tuttavia lo fa spingendosi oltre le soglie della tolleranza tra il prelevare e il dare, creando una situazione di squilibrio. Sommando gli scompensi, si rischia di giungere a una deriva irreversibile.
Si applicano cerotti su ferite che hanno ormai iniziato a macerare. Un giorno, forse nemmeno troppo lontano, le bende saranno sporche e bisognerà scoprire la piaga.