Uno era quello a cui “come cittadino bollivano le busecca” per il disaccordo del tribunale amministrativo sulle decisioni dell’ufficio migrazione. L’altra era quella che con fare autoritario e paternalista giustificava la deportazione dello studente Mark in quanto “s’era applicata la legge nel rispetto della legalità”. Ora la coppia di “strong men” nostrani abbandona momentaneamente il bastone per la carota. E così Norman Gobbi e la capa della Sez. Popolazione Silvia Gada ricordano che questo è un cantone generoso. Non c’è accanimento nella questione migratoria: qui, se ben integrate, le persone ottengono un permesso. Peccato però che chi invoca “il bastone per chi sgarra” (“ne colpisco uno per educare tutti”) falsi la realtà. Altro che “confondere burro e ferrovia”. Basta vedere i bassi tassi d’accoglienza, le deportazioni continue, la ripetuta persecuzione di “vite altre” e quell’obbrobrio vergognoso che risponde al bunker di Camorino: uno schifo che obbliga le persone per anni a vivere sottoterra. Basterebbe ascoltare chi lì ci vive. O coloro che hanno subito le politiche dell’ufficio migrazione impartite dal loro kapetto. Quante esistenze minate dal bastone al governo? Quante si sono viste intimare di lasciare il Ticino? Quante situazioni personali distrutte? Quanti nati qui espulsi all’improvviso? Sono questi racconti a evidenziare il dispositivo di segregazione costruito dal Dipartimento delle istituzioni per rendere difficile l’ottenimento o il rinnovo dei permessi. E proprio colui che in un “articolo” sul domenicale preferito asseriva che “tra le cose intollerabili ci sono le storie e i racconti sentimentalmente farlocchi inventati dagli immigrazionisti, vere fake news”, dovrebbe vincere un soggiorno premio di almeno un anno nel bunker di Camorino. Tanto per vedere l’effetto che fa.