Da sempre fra i più tenaci e temerari difensori delle politiche israeliane, il professor Ernesto Galli della Loggia ci invita, sul ‘Corriere della Sera’ (‘Democrazie e guerre, violenza e giudizio storico’), a una riflessione che merita attenzione, ma anche una replica, spero anche da parte di chi è più titolato del sottoscritto. Cerco di riassumere la tesi dell’emerito docente e saggista. Nella loro storia anche le democrazie hanno fatto ricorso alla forza, a volte la più sfrenata e crudele – un esempio: le atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki – non soltanto per difendere la propria sopravvivenza e i propri principi, ma anche i propri interessi; Israele è senza alcun dubbio un Paese democratico; quindi, noi democratici, figli ed eredi di quella Storia fatta anche di grande violenza, dovremmo tenerne conto ed essere meno sbrigativi e severi quando critichiamo il governo Netanyahu e Tsahal (l’esercito dello Stato ebraico) per l’orrenda strage di Gaza, e ora anche di una parte del Libano. Apparentemente logico. Apparentemente indiscutibile. In realtà, molto si può dire, e contestare, di questa equazione storica assolutoria.
A quali democrazie fa riferimento Galli della Loggia? Soprattutto a democrazie che tali erano unicamente (e comunque relativamente) in casa propria. Democrazie coloniali o imperiali. Come la celebratissima democrazia liberale britannica, a lungo padrona di un enorme impero, dall’Europa (vedi Irlanda) al Medio Oriente (i confini disegnati da Downing Street col righello dei propri calcoli geo-strategici-energetici) al lontano Oriente (basti pensare all’India, liberatasi dal giogo inglese con “la forza della non violenza” gandhiana): tanto che oggi, in un Commonwealth che si sta liquefacendo, l’Australia e le sue autorità chiedono di chiudere definitivamente l’era del colonialismo inglese paventando oltretutto la richiesta a Londra di storici indennizzi.
La “più importante democrazia del mondo” si dice ancora e sempre dell’America. Che di principio contrastò il colonialismo europeo e fu decisiva nella nascita della Società delle Nazioni (poi Onu). Ma che nei fatti ne creò un altro modello “made in Usa” dopo la Seconda guerra mondiale: un soft power pervasivo; alleati europei che pagarono con la sottomissione a Washington sia gli aiuti americani (Piano Marshall) sia la loro colpevole irrilevanza politica (mancata integrazione); basi militari statunitensi in mezzo mondo; interventi in diversi Paesi prima in funzione anti-comunista poi sempre con la pretesa, o la finzione, di esportarvi la… “democrazia”; il tutto mentre il modello americano (con Trump che ne è il sintomo e non la causa) mostra le sue contraddizioni, le sue profonde divisioni interne, la sua lunga e irrisolta malattia.
L’indiscutibile “democrazia israeliana”, sostiene Galli della Loggia. Che tale è, ma democratica unicamente per gli israeliani. Si può infatti definire davvero democratica una nazione che da oltre mezzo secolo occupa territori arabi, che non rispetta la risoluzione che imporrebbe a Israele di ritirarsi da tutti i territori occupati (ribadita dall’Assemblea generale Onu lo scorso settembre), che ha diviso quel territorio in una serie di Bantustan (anche B’Tselem, la principale organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, denuncia in Cisgiordania una condizione di apartheid), che autorizza una colonizzazione sfrenata (negli insediamenti, tutti illegali, vivono ormai 700’000 israeliani), che consente continue aggressioni alle popolazioni e alle proprietà palestinesi grazie alla protezione dell’esercito israeliano, e che ha varato una legge per cui Israele è “lo Stato degli ebrei”, come se un quinto della sua popolazione, all’interno dei confini del 1967, non fosse araba (islamica o cristiana)?
Sempre la “democrazia israeliana”, negli ultimi vent’anni gestita in gran parte dai governi della destra nazionalista guidata da Benjamin Netanyahu, ha escluso, anche con decisione parlamentare, la soluzione dei “due Stati”, negando dunque di principio il diritto palestinese a una “national home” (per riprendere la formula inglese che un secolo fa aprì la strada alla nascita dello Stato ebraico); senza dimenticare che fu ‘la democrazia israeliana’ a tollerare inizialmente la nascita di Hamas a Gaza (nella prima parte degli anni Ottanta) e, più recentemente, a dichiararne pubblicamente l’“utilità” come strumento per tenere divisa la leadership palestinese (come se ve ne fosse bisogno) sempre allo scopo di impedire la soluzione dei ‘due Stati’.
La democrazia compiuta non esiste, e lo sappiamo bene noi che la viviamo o la osserviamo con tutte le sue incompiutezze, lacune, contraddizioni. Ma, contrariamente al prof. Galli della Loggia, riteniamo che essa abbia un senso soltanto se rapportata a quanto deciso e regolato dalla comunità internazionale dopo il ‘male assoluto’ rappresentato dal nazi-fascismo, dalle leggi razziali, dalla Shoah, dai 40 milioni di morti della seconda guerra mondiale; da quando, in sostanza, su quel ‘mai più’ quasi urlato dopo tante tragedie fu decisa una serie di leggi internazionalmente vincolanti per la difesa dello Stato di diritto (per tutte le minoranze, politiche e non solo). Atto fondante. Che questo impegno sia stato e sia a più riprese disatteso, che le sopraffazioni, le violenze, le violazioni del diritto internazionale, il non rispetto dei diritti umani venga germinato da Paesi di (a volte presunta) tradizione democratica o da nuove forme di esasperato nazionalismo identitario e da cosiddette ‘democrazie illiberali’, non cancella il fatto che il termine democrazia ha un senso compiuto e autentico e condivisibile unicamente se coltiva e difende il rispetto dei diritti umani e delle regole che ci siamo date con anni di battaglie politiche. Impegno imprescindibile proprio nell’ora più difficile e critica di questa volontà sempre più stanca e assediata da qualunquismo e nuove spinte distruttive.
Sono i punti essenziali. Ma sufficienti per affermare che l’assolutoria formuletta dell’emerito prof. Galli della Loggia non può trovarci d’accordo. Non quando Israele, voluto dall’Onu, dichiara guerra all’Onu. Non quando una comprensibile risposta militare alla strage terroristica del 7 ottobre 2023 diventa una brutale punizione collettiva per la popolazione di Gaza (pure essa “corresponsabile”, come dichiarò incredibilmente il presidente israeliano Herzog nelle settimane successive a quel feroce attacco). Non quando non si vede e non si riconosce più, reciprocamente, il dolore degli altri. Non quando esponenti del governo in carica, mai smentiti da chi guida lo stesso esecutivo, si pronunciano per un’annessione totale di Cisgiordania e Gaza (quindi per Eretz Israel, il grande Israele, che comprenda Giudea e Samaria, l’altra faccia del “Dal fiume al mare Palestina libera” di Hamas). Non quando esprimono la volontà di svuotare il più possibile le terre arabe dei loro abitanti palestinesi. Tutto questo, egregio professore, proprio per evitare le prepotenze e i delitti di cui le democrazie, o certe cosiddette democrazie, si sono macchiate nel corso della Storia, come lei ha voluto ricordarci per tranquillizzare la nostra coscienza. E la nostra indignazione. Non ci stiamo. Le democrazie o sono consapevoli dei propri impegni, o semplicemente non sono. Vale anche per Israele. Non sono gli inutili insistiti massacri a garantire la propria sopravvivenza.
Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog ‘naufraghi.ch’