Ci fa piacere notare che il nostro articolo del 21 settembre 2024 abbia stimolato una riflessione, anche se ci sembra che la risposta di Maurizio Agustoni (laRegione, 30 settembre 2024) eluda molti dei temi che avevamo sollevato, confondendo concetti e attribuendoci posizioni che non ci appartengono. Innanzitutto, ci preme chiarire che nessuno ha invocato pianificazioni statali centralizzate o burocrazie oppressive. La nostra critica alla “Governance by Numbers” non è una richiesta di controlli pianificati e asfissianti, ma piuttosto una denuncia di una politica economica che, vincolata da parametri quantitativi e formule meccaniche, sacrifica la progettualità a lungo termine e la creatività sociale in nome di un feticismo dei numeri.
Accennare alla Cina come esempio di approccio “ragionieristico” è un argomento fuorviante. È un modello politico che nessuno ha invocato e che, anzi, distoglie l'attenzione da ciò che davvero interessa: le scelte concrete che ogni giorno comprimono i redditi e accentuano le disuguaglianze. Il vero “ragionierismo” di cui parliamo è quello che riduce la politica economica a meri calcoli contabili, ignorando le dinamiche sociali e la crescente precarizzazione del lavoro. Parliamo di un capitalismo che continua a far leva su politiche salariali al ribasso e su interventi di welfare che finiscono per sostenere indirettamente certe imprese, mantenendo a galla un sistema che produce disuguaglianze.
Ci viene attribuito di “lamentarci degli effetti alimentando le cause”, ma in realtà stiamo denunciando proprio un modello economico che, come abbiamo spiegato, non solo perpetua, ma aggrava questi effetti. Non siamo noi a sostenere politiche di austerità, di sgravi fiscali o di compressione salariale: queste sono le politiche che critichiamo, mostrando come, alla lunga, erodano la coesione sociale e generino tensioni che non possono essere risolte con la semplice crescita del Pil o con promesse di trickle-down, di sgocciolamento della ricchezza, che, come è noto, è poco più di una favola.
Veniamo poi alla questione del capitalismo, che sembra essere toccata con una certa superficialità. Nessuno ha mai affermato che l’unica alternativa sia la “pianificazione statale” rigida, come se la realtà fosse binaria: o il capitalismo sfrenato o una sorta di economia di stampo sovietico. Ci sono modelli intermedi, già ampiamente discussi, che mettono al centro la redistribuzione della ricchezza, il rafforzamento del welfare e un’economia che, pur rimanendo di mercato, non si piega al dominio della finanza speculativa.
Quanto al pensiero di sinistra, accusato di ridurre l’essere umano alla sua mera dimensione economica, è interessante notare come proprio il capitalismo neoliberista sia maestro in questa riduzione: quando il valore dell’individuo è strettamente legato alla sua capacità di produrre e consumare, allora si è davvero ridotto l’essere umano a una semplice macchina economica. Perché, come anche noi abbiamo scritto, non basta “dare da mangiare” all’uomo e alla donna: servono salari dignitosi, sicurezza lavorativa, una vita sociale ed economica che garantisca rispetto e benessere.
Infine, siamo d’accordo con Malraux sul fatto che il XXI secolo avrà una dimensione spirituale, anche se non siamo del tutto convinti che si stia andando in questa direzione. La spiritualità, però, non può essere una scusa per ignorare le reali dinamiche materiali ed economiche che impoveriscono milioni di persone. La fame, il malcontento sociale e la precarietà non sono solo “bisogni spirituali insoddisfatti”. Sono problemi economici reali che richiedono soluzioni concrete, e quelle soluzioni passano per un profondo ripensamento delle politiche economiche attuali.
Se vogliamo veramente rimettere al centro l’essere umano, dobbiamo partire dal riconoscere le disuguaglianze e i limiti di un sistema che sacrifica il benessere collettivo sull’altare della rendita finanziaria e del profitto a breve termine. Solo un cambio di paradigma, come suggerivamo, potrà salvare la nostra società dalle sue derive attuali.
Come ricorda Gaël Giraud, economista, teologo e sacerdote gesuita, vivente: “La salute, l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società.” In questo risiede il vero compito della politica: non vincolarsi a parametri quantitativi asfittici, ma progettare un futuro che tenga conto delle interdipendenze globali e costruire istituzioni capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo. Con coraggio e visione.