Mi hanno detto che te ne sei andato, Roman. Che sei partito con la tua famiglia, senza dire niente. Dove, non lo so
Mi hanno detto che te ne sei andato, Roman. Che sei partito con la tua famiglia, senza dire niente. Dove, non lo so. Sarai tornato in qualche villaggio della Transcarpazia? Oppure in qualche altro luogo dove senz’altro non sarai il benvenuto? E chi lo sa?! Da Lamone sei partito come sei arrivato: all’improvviso. Quanto sarai stato qui, quattro o cinque mesi? Non lo so esattamente. Mi ricordo quando ci siamo incontrati la prima volta mentre scorrazzavi laggiù, vicino alle scuole, con la tua banda di amici fratelli cugini. Mi sei entrato subito in simpatia, da quel momento in cui mi hai chiesto se non avessi delle bici per voi. Portavi una maglietta dei Biasca Rockets e mi ha colpito quel tuo sorriso gentile con i denti storti e il tuo fisico smilzo come lo ero anch’io a dodici anni.
In paese si era già sparsa la voce: «Sono arrivati i rom», «Rubano le bici e le rivendono», «Hanno comprato i passaporti ucraini», «Prenderanno i soldi e se ne andranno». Certa stampa lanciava l’allarme. Io non lo so perché sei arrivato qui. Non lo voglio neanche sapere. L’Ufficio dei richiedenti l’asilo e dei rifugiati ti ha piazzato tra i palazzi di Lamone e Cadempino assieme alla tua numerosa famiglia. Tantissimi bambini, soprattutto maschietti. Il più piccolo è nato qui, in uno di quei palazzi, poco dopo il vostro arrivo. Le autorità hanno protestato. Nessuno vi voleva. Nessuno vi ha mai voluto, d’altronde. Lo dice la storia. Da qualche parte però, questa volta, hanno dovuto mettervi. Anche voi arrivate dall’Ucraina: uno “statuto esse”, siete.
Ma chissenefrega di cosa siete? Siete bambini. Bambini che forse qui, in quel quartiere che pur si chiama “Speranza”, avreste avuto qualche possibilità. Le istituzioni non hanno voluto gridarlo troppo: accogliervi bene avrebbe richiamato altri di voi. E allora, per mesi non siete andati a scuola voi che a scuola mai ci siete andati: le aule non c’erano, gli interpreti nemmeno, la voglia di spendere risorse figurarsi. Tanto si sapeva che ve ne sareste andati. Così bighellonavate liberi e tutti vi vedevano per le strade con le bici, preoccupati che avreste anche potuto rubare.
Dal “basso”, però, tra i vicini, nella scuola, la dottoressa, sono in tanti ad avervi sostenuto. Noi ci vedevamo al campetto. Io con le mie bambine, tu con la tua banda a impennare con le bici. Vi squadravo con invidia: non sono mai riuscito ad andare su una ruota sola. Facevamo qualche tiro di basket e ti prestavo lo skateboard. Non eri mai andato su quella strana tavola con le ruote che però ti divertiva. E poi provavamo a parlare un po’ di italiano. Nessuno te lo stava insegnando anche se eri qui da mesi. Fino al venti siamo riusciti a contare. Tu mi dicevi che parlavi ucraino, ma era chiaro che la tua lingua è un’altra. Vi avranno detto di dire così. Ti ho sorpreso quando ti ho chiesto, in romanì, come ti chiamassi: Sar buchos? «Me buchov Roman». Roman, come quel bimbo che girava con te e pensavo fosse tuo fratello, ma che era il figlio di tuo fratello. Tuo nipote. Tuo padre era morto, mi hai detto una volta indicando il cielo con gli occhi.
Una volta mi hai visto fuori dalla biblioteca e mi facesti capire che dovevo aspettarti. Dovevi andare a prendere dei “papiri”. Mi aspettavo della burocrazia. Tornasti di corsa con il volantino elettorale dove c’era la foto della mia compagna. Anche a lei stavi simpatico. La indicavi sorridendo e mi donasti il volantino come se fosse una cosa preziosa. L’ho trovata dolce quella mossa. Un’altra volta sei venuto con i rifiuti e mi hai chiesto come si buttavano, il vetro, il pet e l’alluminio. In tanti, qui tra i civilizzati, non sanno ancora oggi come si fa. O non vogliono saperlo.
Una sera abbiamo dato una bici al tuo amico Bogdan. Ci sei rimasto male, anche se una bici, a te, l’avevamo già data. Sei venuto da me e hai pianto. Mi hai fatto capire che quella bici blu te l’aveva presa qualcuno, forse tuo fratello grande. I tuoi adulti non li ho mai visti. Eri felice quando te ne abbiamo data un’altra. Gialla e con gli ammortizzatori. Anche quella dopo un po’ non c’era più. Era rotta, mi hai detto. Non so se ti ho creduto. Non possiamo capire tutto. Non possiamo capirci in così poco tempo. Non ci capiremo forse mai. Siamo uguali, ma altri. Non sono né un antropologo né un educatore di strada. Sono un papà e le mie bimbe erano contente di giocare con te. Eri contento anche tu: avevi finalmente iniziato ad andare a scuola, a Gravesano. Ci andavi col «bus 445», dicevi per mostrare che i numeri li stavi imparando.
In queste ultime settimane non sono venuto spesso al campetto. Ha piovuto o non c’ero. Chissà se tu c’eri? Non ti ho visto più in giro. E ora mi hanno detto che sei partito con la tua famiglia, senza dire niente. Dove, non lo so. Ma c’è chi grida agli abusi e la questione si fa politica. Avrei voluto solo salutarti. Avrei preferito che se ne andassero altri, gli speculatori nostrani che per il soldo, e nel pieno rispetto della legge, distruggono la nostra terra. Sono loro i ladri, sono questi gli abusi. Non tu, non voi. Tu sei un bambino. Sei stato qui poco. Non so se ti è piaciuto, ma spero che tu abbia capito che ti si voleva bene. Buona strada, Roman!
Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog ‘naufraghi.ch’