Già strada maestra verso il “male assoluto” che piagò il secolo scorso, oggi ancora cerbero che non trova l’Eracle capace di domarlo, l’antisemitismo in questo tragico periodo è anche il peggior servizio che si possa offrire alla causa palestinese. Un “dono” avvelenato. Insopportabile anche per chi ebreo non è. Letale per il confronto non violento, libero e democratico. Sia che questo vecchio-nuovo antisemitismo (più correttamente anti-ebraismo, perché semiti sono considerati pure gli arabi e altre etnie) risulti di marca pavloviana, quindi semplice riflesso condizionato, o il malato esito di una mancata elaborazione e consapevolezza di ciò che esso ha germinato nei secoli: i ghetti (inizialmente decisi dalla Chiesa contro i “deicidi”), i pogrom (che hanno tragicamente scadenzato un lungo tratto di storia europea), l’Olocausto (che ne fu massima realizzazione genocidiale), e anche l’indifferenza di troppi nostri governi (che lasciarono consapevolmente e a lungo nei cassetti le prove dei lager nazisti e delle camere a gas).
Per questo la battaglia armata, politica, intellettuale contro la mostruosa nefandezza operativa e ideologica dell’antisemitismo – uccidere l’ebreo non perché letale nemico ma solo perché ebreo, e oggi ci sono “altri ebrei” di altre mattanze –; quella battaglia fu e deve rimanere humus, base, terreno costitutivo, fondante, irrinunciabile di quel “mai più" coralmente accettato dopo il 1945: terreno arato, e si sperava sufficientemente bonificato dal canceroso concetto delle razze inferiori, per seminarvi la nascita delle nostre società liberali. Per diventare anche monito contro le tragedie umanitarie della nostra epoca.
Sappiamo, lo abbiamo scritto, lo abbiamo denunciato: una automatica generica accusa di antisemitismo investe troppo spesso e pretestuosamente le giuste critiche alla politica annessionistica di Israele, ai suoi ininterrotti impulsi di violenta colonizzazione dei territori palestinesi occupati dal lontano 1967, di negazione dei diritti di un popolo che (anche a causa degli errori della sua leadership, al netto comunque decisamente inferiori alla pervicacia della sopraffazione israeliana) in più di mezzo secolo ha subito arbitrarietà e discriminazione, legge militare e forme di apartheid territoriale, umiliazioni e negazione della sua parte di diritti. Quindici anni di governo Netanyahu (sugli ultimi 17); il diniego dichiarato della soluzione dei due Stati o di una proposta alternativa negoziabile e condivisibile; l’appoggio teorizzato, dichiarato, che il premier israeliano ha fornito ad Hamas per sciogliere nell’acido dei contrasti intestini qualsiasi impulso unitario fra laici e islamisti del campo palestinese; la comoda “carta bianca” a lungo concessa a Tel Aviv dalla comunità internazionale nell’illusoria, miope, sciagurata convinzione che lo “statu quo” potesse protrarsi all’infinito nonostante la putrefatta ferita, aggravata da nascita, crescita, violenza regionale e internazionale del jihadismo più militante e anche più feroce: su tutto questo il giudizio è netto, deve rimanere coerente, non ha bisogno, assolutamente non ha bisogno, di quel malefico sovrappiù di antisemitismo che, anche se certo in forma minoritaria, si manifesta in certe dichiarazioni, in certi cortei, in certi assalti. Come è avvenuto nel giorno anniversario della Liberazione d’Italia, un’Italia già afflitta, per converso, da un governo che si rifiuta (perché non può, perché non vuole, perché non accetta di scorporarlo dal suo Dna) di considerare l’antifascismo scritto nella Costituzione una strada irrinunciabile; che appoggia Israele mentre non accetta di condividere e dichiarare l’avversione a quel fascismo che decretò le leggi razziali e consegnò a Hitler le prede di razzie e deportazioni di ebrei in tutto il Paese.
Non è accettabile che la “Brigata ebraica” che sfila per le vie di Milano sia subito e automaticamente associata alla politica del governo israeliano in carica, al massacro di civili in corso a Gaza, ai propositi di “pulizia etnica” dei vari Ben Gvir e Bezalel Smotrich farneticante nella detestabile ultradestra messianica che Netanyahu ha cooptato per convinzione ma anche per salvarsi dalle aule di giustizia. Non è accettabile che chi commemora quella Brigata, lungo il percorso venga insultato e aggredito; che un ragazzo ebreo sia isolato e pestato; che i praticanti ebrei debbano temere di portare la kippah; che chi è identificabile come israelita debba decidere di non partecipare alle lezioni in classe ma solo in remoto; che a un’ospite televisiva il conduttore chieda stupidamente e perfidamente se sia ebrea, ben sapendo che lo è, tentando così di sminuirne anticipatamente la credibilità.
Oltretutto, tornando alla Brigata ebraica – che celebrava la Liberazione e non inneggiava alle scelte di Israele –, quanti sanno che percentualmente, nella lotta anti nazi-fascista, aderirono più ebrei di quanti italiani passarono alla lotta partigiana? Se non si denuncia questa deriva, se non si ha il coraggio di condannare e zittire nei cortei per i diritti palestinesi i giovani arabi della seconda-terza generazione (certo spesso discriminati, spesso marginalizzati, spesso rifiutati, raramente davvero integrati) che urlano slogan antiebraici intollerabili, anche se comprensibilmente condizionati dal dolore e dallo sconcerto del massacro anti-gazawi, allora la voce, anche la nostra voce, la voce di chi da sempre ritiene indispensabile respingere ogni forma di anti-ebraismo e di proporre (anzi imporre) l’impegno costante del dialogo, la sfida della ragionevolezza, il riconoscimento della sofferenza altrui, rischia di affievolirsi, di accettare l’incoerenza, di sottoscrivere un silenzio che è doppiezza.
Se Israele è uno Stato che vìola, come certo vìola, leggi internazionali e di umanità (in proporzione ben maggiore rispetto al terroristico feroce attacco anti-ebraico del 7 ottobre), se è uno Stato che viene ammonito dalla Corte penale internazionale per essere a un passo del genocidio anti-palestinese da cui la separa un filo ormai sottile, quello dell’odio anti-ebraico, e della sua mancata denuncia, non è un passaggio accettabile: rischia piuttosto di trasformarsi nell’approdo a una complicità obiettiva, anch’essa intollerabile. Piano pericolosamente inclinato e scivoloso. Che danneggia e declassa l’impegno di una critica anche dura contro Israele, ma cristallina, ragionata, documentata. Semplicemente democratica.
Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog ‘naufraghi.ch’