Le immagini dei contadini europei (e in parte svizzeri) che protestano bloccando le autostrade ci toccano da vicino, perché il “nostro pane quotidiano” dipende da loro. Cosa chiedono i contadini? Essenzialmente due cose: meno regole e maggiori guadagni. E hanno ragione di protestare? Sì, in gran parte.
La loro vita è segnata da lunghe ore di lavoro con guadagni minimi, perlomeno nella maggior parte dei casi. Il settore genera il valore aggiunto per addetto più basso tra tutti i settori produttivi e oltretutto è distribuito male. La parte consistente va – in Svizzera – ai grandi produttori dell’altipiano (che possono permettersi economie di scala) e ai distributori finali in particolare ai grandi centri commerciali, che determinano i prezzi (ad esempio i contadini ricevono circa 50 centesimi al litro di latte prodotto che viene venduto tra 1,80 e 2,10 franchi). Ai piccoli produttori rimangono solo le briciole, nonostante consistenti aiuti pubblici. In realtà, perlomeno in Svizzera – ma anche negli altri Paesi non è molto diverso – abbiamo poche aziende che si prendono la gran parte della torta e agli altri rimane poca cosa. La lobby agricola a Berna, guidata dall’Udc, in realtà difende soprattutto gli interessi dei grandi produttori e della grande distribuzione (in Europa è lo stesso) ma è abile a far credere ai piccoli produttori che è dalla loro parte come dimostra il silenzio quasi assoluto dei politici che contano sulle proteste.
La politica agricola svizzera è ambigua e discutibile, perché favorisce pochi a scapito di molti. Oggi – caso ticinese – i piccoli contadini sono spesso sovra indebitati rispetto ai guadagni reali. Investimenti che non hanno nessuna logica economica. Ma soprattutto la produzione di qualità non viene premiata rispetto alla quantità. Chiaramente se l’obiettivo è quello di nutrire la popolazione, la quantità è fondamentale, ma forse non è la strada giusta.
Che senso ha continuare a produrre latte a prezzi da discount?
In realtà sarebbe il caso di rivedere gli obiettivi della politica agricola svizzera ed europea.
Per produrre un litro di latte occorrono oltre 600 litri di acqua. Per un kg di carne bovina, circa 15’000 litri di acqua, 8’700 per la carne ovina, per un kg di pollo 4’300. Gli animali consumano molto più cibo degli esseri umani e allevarne milioni ogni anno, nutrendoli con tonnellate e tonnellate di mangimi che derivano da colture adatte al consumo umano, per poi macellarli, non è neanche lontanamente sostenibile. Né dal punto di vista idrico, né da quello ambientale. Secondo la Fao, l’allevamento di animali provvede soltanto al 18% del fabbisogno calorico globale e al 37% delle proteine, ma consuma il 70% dei terreni agricoli (fonte: https://www.essereanimali.org).
Perché questi dati sono importanti per la politica agricola del futuro? Come abbiamo avuto modo di constatare negli scorsi anni la carenza di acqua – che verosimilmente peggiorerà a causa del cambiamento climatico – renderà l’allevamento di animali sempre più complicato. Evidentemente bisogna differenziare tra gli allevamenti tradizionali e quelli intensivi, ma il problema rimane. L’orticoltura ha già intrapreso il cambiamento, con la coltivazione in serra e con l’utilizzo di tecnologie che minimizzano il consumo di acqua. Non così nell’allevamento, che oltretutto è spesso a monocoltura. Una politica agricola sensata, in particolare per i piccoli contadini e soprattutto per quelli di montagna dovrebbe essere quella di diversificare la produzione e soprattutto di mantenere in loco il valore aggiunto creato, attraverso reti di distribuzione locali.
In Ticino, il fallimento della Lati – che non conosco nei dettagli – sembra dimostrare che il sistema attuale non funziona e soprattutto non è vantaggioso per gli allevatori.
La sfida non è facile e richiederà sforzi notevoli. Da una parte sarà necessario garantire la sopravvivenza dell’agricoltura che è indispensabile non solo per garantire l’indipendenza alimentare del paese ma anche e soprattutto per salvaguardare il paesaggio. D’altra parte, è necessario un cambio di mentalità dei consumatori, che devono imparare a valutare la reale qualità del prodotto, cosa tutt’altro che evidente, visto il continuo peggioramento dei redditi reali di una parte consistente e crescente della popolazione.
Difficile capire come uscirne, ma la soluzione potrebbe essere quella di non più guardare al mercato globale, ma a quello locale. In ogni caso è fondamentale cambiare strategia al più presto per non correre il rischio di perdere una parte importante della nostra cultura alimentare… quella vera.