Leggendo il commento dei vicepresidenti del Plr sul ‘Corriere del Ticino’ e nel sito online ‘Ticinolibero’ lo scorso 4 gennaio (‘Autogestione a Lugano, la misura è colma’), ho pensato che oggigiorno, forse educati alla scuola dei social media, si può proprio scrivere qualsiasi cosa. Non mi riferisco tanto al discorso generale dell’articolo, che martella sul tema della legalità vilipesa partecipando così a un coro già numeroso e potente: è un modo di vedere le cose che, per quanto limitato a un solo aspetto della questione, e nemmeno centrale, si può anche capire. Come si può capire che sotto elezioni quella palla andava colta al balzo. Sono le informazioni di contorno, quelle che dovrebbero sostanziare lo scontato discorso generale, a lasciare senza parole.
Ecco cosa scrivono Giovanni Luatti e Fabio Rezzonico: "Il concetto di autogestione lo troviamo già nei principi chiave del Manifesto del Partito Comunista di Marx del 1948, dove le decisioni dovrebbero essere prese in modo democratico e dove tutti i membri contribuiscono attivamente all’autogestione e all’organizzazione. Oggi questo movimento ha fallito e il movimento Il Molino ne è l’esempio". Ohibò! Lasciamo perdere la forma e occupiamoci del contenuto. Per cominciare, il ‘Manifesto’ è del 1848 (in altri casi si penserebbe a un banale errore di battuta, ma qui resta il dubbio). E non vi compare il termine autogestione, peraltro recente, e neppure il concetto. Non è che la parola autogestione sia del tutto estranea alla tradizione socialcomunista: si pensi all’autogestione jugoslava o a certe riletture dell’opera di Marx nel secondo Novecento, che vi hanno rintracciato alcuni passaggi in merito (intesa però sempre come autogestione della classe operaia). Ma farne un "principio chiave" del Manifesto è ridicolo. Forse ai nostri analisti liberali è però bastato sapere che Marx è “cosa cattiva”, come l’autogestione che rumoreggia a Lugano, per stabilire questa allegra filiazione.
Se non si conosce sommariamente il pensiero di Marx (non l’hanno “fatto” a scuola?), si potrebbe almeno andare su Wikipedia. Alla voce ‘marxismo’ si troverà sì la parola autogestione, ma nel capitolo che tocca il rapporto con l’anarchismo (perché a quel movimento viene più comunemente associata). Questo primo livello elementare di conoscenza avrebbe potuto orientare meglio i due sentenziosi vicepresidenti: avrebbero forse potuto intuire che l’autogestione come la intende il Molino (la parola da sola dice poco: in fondo si autogestisce, o si illude di farlo, anche chi paga alla cassa automatica) è più vicina alla tradizione anarchica che a quella marxista (e marxiana), alla quale semmai si contrappone. E non avrebbero scritto "questo modello (quello di Marx) ha fallito e il movimento Il Molino ne è l’esempio": frase insensata quant’altre mai. E fermiamoci qui, che infierire non sta bene. Passiamo dal generale al particolare.
I due vice continuano addentrandosi nella storia locale dell’autogestione: "Fondato nel 1980, (il Molino) rappresentava un luogo d’incontro e di attività socioculturali alternative con eventi, dibattiti, concerti, mostre e attività sociali che favorivano lo scambio d’idee all’interno della comunità". Con le date hanno evidentemente qualche difficoltà. A parte che un movimento di questo tipo solitamente nasce e non si fonda, il Molino nasce nell’ottobre del 1996 con l’occupazione dei Molini Bernasconi di Viganello, in disuso, e da lì prende il nome (e questo lo sanno quasi tutti). Naturalmente non nasce dal nulla: erano attivi in quegli anni alcuni gruppi – Gas, Sud, Robin Hood, Realtà antagonista, Collettivo zapatista – che avevano posto le premesse per quell’esperienza di occupazione. Ma non certo nel 1980, e nemmeno dieci anni dopo. Sarebbe bello conoscere la fonte di tanta disinformazione.
Andiamo avanti: "Il Molino non ha saputo affrontare le sfide e i cambiamenti, perdendo il suo ruolo di alternativa alle strutture tradizionali, ergendosi unicamente a paladino dell’illegalità e della protesta fine a se stessa, basata sull’occupazione di spazi privati e piazze, senza alcuna effettiva apertura al dialogo". Di cambiamenti ce ne sono stati, dentro e fuori, anche se non sono tanto quelli indicati qui. Ed è curioso vedere come questi alfieri della legalità e del rispetto vedano ora nel “primo Molino” un "luogo d’incontro e di attività socioculturali alternative con eventi, dibattiti, concerti, mostre e attività sociali che favorivano lo scambio d’idee all’interno della comunità" (apprezzabile, si direbbe, quanto i non meglio precisati "movimenti e associazioni che operano nella legalità, con un approccio liberale e moderato" evocati nell’articolo). Eppure anche quel primo Molino occupava, scendeva in piazza, “rompeva”. Tanto che il Municipio di allora (dopo la parentesi del Maglio di Canobbio, ndr) aveva deciso, saggiamente o furbamente, di concedere gli spazi dell’ex Macello per toglierlo da strade e piazze. È chiaro che i molinari di allora non sono quelli di adesso e viceversa. Tutto cambia, lentamente o in fretta: Lugano, il Municipio, il Molino, il partito liberale cittadino, i suoi presidenti e vice. Secondo Luatti e Rezzonico, i molinari di oggi altro non fanno che esprimere "un comportamento riprovevole, irrispettoso dell’autorità (…) in chiaro contrasto con lo spirito dell’autogestione" (e se lo dicono i due vice, che di autogestione sembrano intendersene…).
Riconoscere a posteriori nel Molino di allora una funzione socio-culturale e negarla a quello di oggi – che farebbe solo della "protesta fine a se stessa" – è indubbiamente una comoda scorciatoia, funzionale a una (apparente) soluzione “d’ordine”. La patata è bollente, come si dice, e le elezioni si avvicinano. È il momento di intervenire fermamente, di esprimere sdegno, di non lasciare alle sole Lega e Udc questo tema ruspante, di dare la linea (anche ai propri municipali?). Ci sarà tempo più tardi, eventualmente, per leggere, imparare qualcosa, memorizzare correttamente un paio di date.
Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog ‘naufraghi.ch’