L’OSPITE

Il governo del fate voi

(Ti-Press)

Brillantemente riconfermato nell’esecutivo federale, il serafico ministro dell’Economia Udc Guy Parmelin sostiene che di fronte al calo del potere d’acquisto ciascuno dovrà fare la sua parte, ovvero stringere la cinghia. Lo Stato non dispone di strumenti per intervenire, e quindi non farà nulla. Insomma, vedete un po’ voi, l’auto-aiuto è il miglior rimedio per evitare di cadere nell’assistenza pubblica.

La dichiarazione di Parmelin lascia stupefatti, ma a ben guardare le sue parole ricalcano il principio del “laissez faire” perseguito dall’Udc e dai suoi alleati. Anzi, per molti seguaci di questa linea la Svizzera è diventata una nazione socialista, che mortifica anziché incoraggiare lo spirito d’iniziativa e la voglia di fare impresa. Si è così formato uno Stato elefantiaco, iper-protettivo, tentacolare, impegnato a tutelare i cittadini dalla culla alla tomba, come succedeva un tempo nelle socialdemocrazie nordiche. Inoltre sta allevando nel suo grembo una burocrazia sempre più numerosa e famelica, fondata sul tacito accordo tra le parti: il voto in cambio del posto di lavoro.

Per spezzare questo circolo vizioso non c’è che una soluzione: “Affamare la bestia”, ossia ridurre le sovvenzioni e tagliare le risorse che hanno generato una simile ipertrofia. Anche l’iniziativa per ridurre il canone radiotelevisivo a 200 franchi segue la stessa logica: con meno introiti, l’ente sarà costretto ad auto-sacrificarsi. La manovra avverrà automaticamente “per volontà popolare”.

Non sono discorsi nuovissimi. Già i liberali di fine Ottocento muovevano alla Berna federale accuse analoghe: un’infausta pulsione centralizzatrice (a danno dell’autonomia dei Cantoni) e una crescente ingerenza negli affari economici e finanziari. Risultato: un socialismo di Stato che il liberalismo avrebbe dovuto combattere.

Campione indiscusso di questa corrente di pensiero fu il Consigliere federale neocastellano Numa Droz (1844-1899). Al termine della sua carriera politica, Droz tenne nel 1896 una conferenza all’Università di Ginevra in cui contrapponeva il lato luminoso dell’architettura elvetica, la “démocratie fédérative”, alle ingannevoli lusinghe del montante “socialisme d’État”.

La prima doveva guardarsi dal centralismo e dall’unitarismo, tendenze che sottraevano potere e competenze ai Cantoni; ma più insidioso era il secondo, lo statalismo di matrice soprattutto germanica, giacché faceva breccia tra i ceti popolari con argomenti apparentemente convincenti. Pericolosi non erano tanto i socialisti dichiarati, precisava Droz, quanto i fautori di un sistematico trasferimento allo Stato centrale di sempre nuove prerogative, come l’istituzione di una “banca di Stato”, la nazionalizzazione delle principali compagnie ferroviarie (tra cui la “Gotthardbahn”), l’introduzione di un sistema assicurativo obbligatorio.

Disse Droz in quell’occasione: “Tutte le volte che in questo campo lo Stato, anziché limitarsi a esercitare la giustizia, a garantire e facilitare il libero gioco dei rapporti sociali e a fornire l’assistenza necessaria agli indigenti, pretenderà di sostituire la sua azione a quella dell’individuo o delle associazioni volontarie, accaparrarsi le industrie, organizzare il lavoro, prescrivere a ciascuno ciò che deve risparmiare, impadronirsi delle eredità, tutte le volte che vorrà prendere in mano la direzione degli interessi economici di ciascuno e procedere d’autorità alla distribuzione delle ricchezze, siate certi che recede dal suo ruolo sospingendo la società negli abissi. Invece che seminare la pace, semina la guerra. Anziché stimolare le forze vive della nazione, le paralizza. Anziché promuovere il benessere generale, non fa che alimentare lo scontento, frutto di un intervento infelice che perturba gli interessi e offende la coscienza individuale del diritto”. E concludeva: “Il campo di attività è vasto: ogni epoca reca i suoi problemi che occorre studiare e risolvere. Ma la regola invariabile da applicarsi a tutti i casi che si presentano è la seguente: l’intervento dello Stato si giustifica soltanto quando occorre stimolare le energie individuali per poi condurle al loro pieno sviluppo; è funesto invece se comprime, se distrugge l’iniziativa privata, il senso della responsabilità personale, queste due grandi leve senza le quali la macchina sociale cesserebbe ben presto di funzionare”.

Droz esprimeva questi convincimenti nel 1896, da quattro anni non era più in Consiglio federale (dov’era entrato, appena trentunenne, nel 1875). Qualche anno dopo i postulati che egli respingeva con fermezza andavano in porto (fondazione della Banca nazionale, riscatto delle ferrovie, primo abbozzo di una legislazione sociale). Era “socialismo di Stato”, come Droz paventava? No, erano tappe inevitabili sulla strada della modernizzazione del Paese, poi perfezionate – non senza incontrare resistenze, anche aspre – nei decenni successivi. Ciò nonostante la diffidenza nei confronti dello Stato e del suo apparato amministrativo è rimasta intatta tra i sostenitori del liberalismo economico puro. Le parole di Guy Parmelin citate in apertura confermano lo spirito di una dottrina che ancora ispira le scelte di una buona parte della destra politica di questo Paese.