È notizia di questi giorni che la metà dei quindicenni svizzeri faticherebbe a capire quello che legge, non riuscendo a estrapolare da un testo, non necessariamente complesso, le informazioni essenziali. Tutto ciò è preoccupante, perché la lettura è importante per formare il bagaglio culturale e il pensiero critico e argomentativo di ogni persona, a maggior ragione degli adulti di domani.
La scuola ha senza dubbio le sue responsabilità. Provo a individuare alcune cause di questo insuccesso ed esporre qualche considerazione in merito.
Inizio affidandomi a un pensiero del filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti: “Invece di riempire le scuole di lavagne digitali, riempiamole di letteratura”. Concordo. Visto che molti giovani sono immersi nelle tecnologie, occorre evitare che esse colonizzino anche le aule scolastiche. Ciò non vuol dire rifiutare gli strumenti digitali in chiave pedagogica e didattica. Bensì evitare di privilegiarli alle essenzialità che la letteratura promuove: emozioni, sentimenti ed empatia, ma pure (grazie alla “lentezza” che essa presuppone) sviluppo di attenzione, pazienza e profondità. Ossia tutto il contrario di distrazioni, frenesia e superficialità in cui ci spingono l’uso quasi compulsivo delle nuove tecnologie. Sostengo da sempre che, per la crescita cognitiva ed emozionale dei giovani, i dispositivi digitali non possono sostituirsi alle relazioni reali e autentiche, quantomai essenziali anche per gli adulti.
In secondo luogo, prendo invece spunto da un articolo di Fabio Camponovo apparso settimana scorsa su queste colonne, in cui è evidenziato l’eccessivo pedagogichese presente nel “Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese” (PdS), di difficile comprensione – aggiungo io – pure per gli addetti ai lavori. Ultimamente, tra l’altro, questo documento è stato aggiornato, passando da una versione con 290 pagine a una con 266 (sic!). Affinché esso diventi utile, è tuttavia necessario disporre anche di uno strumento più sintetico e vicino alla pratica quotidiana. Altrimenti il rischio è che nessuno lo legga. Ma Camponovo nel suo articolo solleva opportunamente un altro aspetto: il PdS è “tutto speso nella celebrazione della didattica per competenze, che è idolo indiscusso degli attuali approcci all’insegnamento e all’apprendimento”. Quello di allentare la morsa sui contenuti a scapito delle competenze trasversali (certo importanti, e che peraltro vengono attivate quotidianamente), non fa che rendere sempre più fragili le conoscenze degli allievi; i risultati in lettura dei quindicenni ne sono un esempio. In un momento in cui il docente è sempre più impegnato a risolvere problemi di gestione del gruppo-classe oppure focalizzato in oneri burocratici eccessivi (banalizzati dai vertici della scuola) e in cui gli studenti sono tempestati da (troppi) stimoli distraenti, bisogna ritornare all’Abc dell’insegnamento e perseguire obiettivi chiari e riconoscibili. Riequilibrando le priorità tra competenze e conoscenze.
Mi piace, infine, evidenziare altri atteggiamenti essenziali per la crescita dei giovani, di cui si parla troppo poco anche nei documenti ufficiali: sono l’impegno, la tenacia, l’allenamento alla fatica, la capacità di risollevarsi dagli insuccessi, il senso di responsabilità. E, in parallelo, da parte dei docenti, l’abilità a suscitare passioni, interessi ed emozioni, trasmettendo quella sete di apprendimento fondamentale per affrontare la vita.
In questo modo, a mio parere e comunque non senza difficoltà, contribuiremo a formare i cittadini di domani con un bagaglio culturale e conoscitivo (più) solido, anche per quel che concerne le abilità di lettura tra gli adolescenti.