I dibattiti

Il tradimento della democrazia

(Ti-Press)

L’infanzia e anche l’adolescenza sono spesso investite da uno sguardo che, anziché riguardarle direttamente, ha piuttosto a che vedere con la natura dello sguardo di chi le osserva. Può tradurre apprensione, tutela, sprone – o qualsiasi altro timore o desiderio. Più un nostro modo di essere, però, che non una attenzione sincera verso i loro bisogni e le loro necessità. Può quindi capitare di sbagliare approccio perché “apprensione”, “tutela”, “sprone” e altri atteggiamenti simili il più delle volte tradiscono fragilità, ansie, limiti e desideri. Sono tutte proiezioni che un genitore con un minimo di consapevolezza e buona volontà riconosce immediatamente e, semmai vi riesca, cerca anche di correggere. Il “bene” dei nostri bambini e ragazzi è sempre l’obiettivo o dovrebbe esserlo. In che modo, però, “il bene” sia tradotto, come venga inteso e declinato quando è in gioco l’educazione e la cura di quanti necessitano del nostro aiuto, questo è ancora tutto un altro discorso. “Volere bene”, volere il loro bene non è di per sé una garanzia di “fare bene”, di fare il loro bene. Sono temi rispetto ai quali esiste oggi una bibliografia sconfinata.

Politica impolita

C’è però anche un altro sguardo su infanzia e adolescenza che deve oggi destare preoccupazione. È quello di chi parla dell’educazione dell’infanzia e dell’adolescenza non pensando alla loro realtà, ma al tornaconto che un certo modo di parlarne assicura. Succede quando lo sguardo e il discorso sull’infanzia hanno di mira altro: un bottino che può essere intascato discorrendo di qualcosa non perché esso stia davvero a cuore, ma perché viene riconosciuto come terreno propizio a intercettare ansie e paure da cavalcare, ossia da capitalizzare in una qualche forma di vantaggio. È sempre la vecchia storia: strumentalizzare quel che si prospetta come un’occasione per aumentare il proprio credito, dopo aver intercettato con destrezza la direzione in cui soffia il vento.

È il caso della politica, quando si mobilita attorno a un tema non perché sul tema abbia effettivamente qualcosa da dire. Quanto perché da un certo modo di affrontarlo è possibile carpirne qualcosa. Può essere un qualsiasi tema, dato che il discrimine non è la competenza, bensì la capacità di intuire come affrontarlo per approfittarne il più possibile, una volta capito quali malumori, quali intolleranze, quali incomprensioni vi aleggino intorno.

È una tecnica antica, che la politica conosce molto bene. E che può persino assicurare notevoli successi a chi la persegue. È accaduto in passato e succede oggi. Ha però un altissimo prezzo: mina alla base la salute, sempre fragilissima, della democrazia. Il suo terreno di cultura non è infatti quello della discussione pubblica ben argomentata e partecipata, nel desiderio di una sempre più consapevole e articolata tematizzazione delle varie questioni, oggi complessissime, inerenti alla vita in comune. Si tratta, al contrario, di una strategia che alimenta le sue azioni muovendosi per così dire ai livelli più viscerali del corpo sociale, rilevandone i malumori, i risentimenti, le paure, le reazioni di intolleranza maggiormente aggressive. Il che, intendiamoci, non è di per sé una frequentazione sconveniente. A condizione però di sapersi poi impegnare nell’ingrata, laboriosa e faticosissima analisi delle loro cause. Un lavoro che presuppone non poche doti scompositive, oltre che un grande senso di responsabilità – visto che le cause sono sempre plurali, articolate, intrecciate e sicuramente mai riconducibili a un solo fattore da additare quale unico responsabile (ora le élites, ora la mondializzazione, ora la speculazione, ora l’immigrazione, ora gli stranieri, ora i frontalieri). E vista anche la scarsa disposizione all’ascolto su cui possiamo contare oggi. Ma c’è di peggio. Ed è quando non si è affatto interessati alle cause, poiché conta solo approfittare delle conseguenze problematiche senza avere minimamente a cuore la loro soluzione. Anzi, il successo dipende esattamente dalla persistenza delle conseguenze, dal fatto cioè che esse rimangano proprio lì dove sono. È chiaro che siamo all’interno di un operare in cui tutto, proprio tutto, vale semplicemente come una risorsa da cui trarre più vantaggi possibili. Allora, qui, non abbiamo solo il tradimento della politica. Abbiamo anche il tradimento della democrazia.

Sviare lo sguardo

Così, può capitare persino questo. Che una ragazzina, la quale guardandoci, si interroga attorno all’oscillazione del suo sentimento di appartenenza di genere, susciti in noi uno sguardo del tutto cieco. Cioè uno sguardo che, invece di approfittarne al fine di interrogarsi sulla sua disponibilità ad accogliere una manifestazione della vita sempre esuberante rispetto alle nostre categorie (non è un caso che, dalla pagina dell’agenda scolastica incriminata, la ragazzina ci stia guardando), si chiede invece subito che cosa sia possibile farne politicamente. Ovvio, dopo aver previsto le reazioni a catena innescabili in una società confrontata per la prima volta (un compito difficilissimo) a un discorso sulla differenza inedito e spiazzante, in cui sono finalmente i diritti a venire avanti e non la più brutale repressione – almeno alle nostre latitudini. Ci sono condanne, come in questo caso, che più che essere interessate all’oggetto della condanna, lo sono ai loro effetti.

È sempre certamente possibile farne anche un problema di opportunità: come parlarne, con chi, quando, in quali luoghi, a quali condizioni. Ma queste sono spesso sottigliezze strategiche che nascondono altro. Alla fine, ciò che dobbiamo chiederci è se vogliamo una realtà inchiodata alle categorie nelle quali ci conosciamo, riconosciamo (e misconosciamo), e quindi aggressiva, violenta e censoria verso tutto ciò che non vi rientra. Oppure una realtà maggiormente variegata, appunto esuberante rispetto agli schemi mediante cui la guardiamo e ci guardiamo. Posso certamente essere spaesato dalla persona che mi passa accanto e di cui, per così dire, non inquadro immediatamente il “tipo”. Pur non volendolo ammettere, posso essere addirittura inquietato da una certa fascinazione subita senza riuscire a metterla in conto. Anzi proprio per questo.

Il fatto è che un mondo in cui ciò accade non è un mondo più povero. È un mondo infinitamente più ricco.