Coloro che negano le cause umane del riscaldamento climatico ripetono che “non pochi scienziati giungono a conclusioni diverse”. Premetto che credibile può essere solo un dibattito scientifico e che a tale scopo il minimo opportuno sarebbe un convegno di specialisti con tanto di contraddittorio, mentre i cenni giornalistici sono legittimi ma limitanti. Riporto l’informazione già nota, che la stragrande maggioranza dei ricercatori, comprendenti tutti i rami delle scienze naturali, è concorde sulle cause antropiche. Non solo: va rilevato che da tempo il grande lavoro si estende a tutto il problema “ecologia”, di cui il surriscaldamento è una piccola parte.
Gli oppositori citano la famosa astrofisica Margherita Hack che afferma il riscaldamento globale dipendere “dal motore dominato dalla potenza del sole”. Ma non è in discussione se il sole sta provocando il surriscaldamento, si discute invece sulla parte attiva dell’uomo nei cambiamenti dell’atmosfera (effetto serra) e nel depotenziamento della natura produttiva.
Cambiano gli elementi dell’atmosfera, i terreni coltivati perdono produttività, la massa vivente dei mari diminuisce. Perché, appunto, si verificano tre crisi preoccupanti: cresce la produzione umana di CO2, mentre sono costanti le emissioni dei gas vulcanici, le oscillazioni dell’orbita terrestre, l’attività delle macchie solari; perde la potenza produttiva del suolo a causa dello sfruttamento intensivo, della micro-biodiversità in calo, dell’uso di fertilizzanti innaturali; la Fao ha dichiarato esaurite fino al 70% le riserve totali di pesce (Vandana Shiva) e la quantità di pesci pescabili del Mediterraneo è del 90% in meno rispetto ai decenni precedenti (Mario Tozzi).
È iniziato l’antropocene e la scelta della denominazione geologica è scientifica e politica, anche se la convenzione non è definitivamente stabilita all’interno della comunità scientifica. Simon Lewis e Mark Maslin di Londra propongono per l’inizio quattro transizioni fondamentali: a) la nascita dell’agricoltura in esteso; b) la prima economia globalizzata del Cinquecento; c) la rivoluzione industriale della fine del Settecento; d) l’accelerazione della produzione capitalistica del secondo dopoguerra. Si discute almeno da due secoli di cambiamenti globali antropici, con uno dei precursori dal nome famoso: Alexander von Humboldt (Telmo Pievani).
Il mondo dei mezzi è sfuggito di mano, mentre si banalizza la riflessione sui fini. Sono con Zygmunt Bauman per il “tendiamo a sentirci orgogliosi di ciò per cui dovremmo invece provare vergogna”. Emanuele Severino, filosofo attore di gigantomachia, ha definito la civiltà della tecnica una follia: il suo ragionamento logico di fondo accusa l’eccesso del divenire umano nell’ambito delle cose. L’onnipotenza occidentale, dalla quale sono scaturite la scienza e la tecnica che conosciamo, è secondo il filosofo una pecca del nostro pensiero, ormai adottato planetariamente. Ma questo non è un destino eteronomo, perché la tecnica è una filiazione della metafisica, perché la metafisica non è morta e perché la sua destinazione sta all’uomo. In altre parole, ciò che l’uomo ha fatto potrebbe essere ripreso in mano dall’uomo. Per un’auspicabile conversione del rapporto uomo-Natura urge un discorso filosofico di dimensione olistica. Siamo di fronte a due istanze: 1) la realtà biologica della biosfera limitata e limitata nella sua rigenerazione; 2) l’accrescimento dell’umanità attrezzata di mezzi tecnici potenti. Siamo all’ultimo millennio?