Tutto come previsto, o quasi. Che il progetto rossoverde (Ps+Verdi) arrivasse al traguardo in debito di ossigeno, era nell’aria. La lista blindata non è piaciuta ai potenziali elettori, delusi per l’esclusione di Amalia Mirante. Certo, gli iscritti avevano deciso, e più volte, per una linea intransigente, che coniugasse l’esperienza (Carobbio) con il rinnovamento (il giovane De Maria). Ma questo non è bastato, perché il nostro sistema elettorale, fortemente basato sul voto disgiunto, permette di aiutare anche le candidature non allineate. Anzi, spesso le incoraggia e le sprona. I tempi della “scheda secca” sono tramontati. Ora l’elettore ha la possibilità di virare sulla scheda senza intestazione, e quindi di premiare i candidati che meglio rispecchiano le sue idee e le sue simpatie, da destra a sinistra passando per il centro. Una volta c’era addirittura la “livragazione”: con un tratto di penna si potevano cancellare i nomi considerati sgraditi. Il vocabolo, che lo Zingarelli neppure più registra, risale al periodo coloniale italiano in Eritrea, Paese in cui un ufficiale di nome Dario Livraghi si rese responsabile di atti criminali nei confronti della popolazione locale (torture, fucilazioni). Davvero curioso che il termine finisse per trasmigrare nella legge elettorale ticinese come sinonimo di stralcio. Non faceva vittime, ma sicuramente feriva il candidato che si vedeva “soppresso” come un reietto nel segreto dell’urna.
Si paventava un ulteriore aumento dell’astensionismo e così è stato. Il fenomeno è in crescita ovunque, riguarda tutti i Paesi a democrazia matura. Pure sulle cause si è discettato parecchio. Disinteresse, apatia, sfiducia nei partiti, assenza di reali alternative, programmi sciapi, passioni fredde, individualismo crescente, anomia sociale… tutto vero. Nonostante le facilitazioni introdotte negli ultimi anni (scheda senza intestazione, espressione del voto per corrispondenza), l’affluenza continua a calare. Finora i rimedi proposti si sono rivelati inefficaci, semplici cure palliative. Probabilmente la riflessione va estesa all’insieme dei fattori che favoriscono o impediscono la partecipazione della cittadinanza al governo della cosa pubblica. Certo che assistere alla lenta decadenza della democrazia semi-diretta, conquista e vanto del sistema elvetico, non è uno spettacolo edificante.
I sondaggi prevedevano pure un incremento della frammentazione partitica nel legislativo. Anche qui non hanno sbagliato. Ora, di fronte al caleidoscopio dei colori e delle sigle, c’è chi medita di introdurre una soglia di sbarramento: provvedimento che non fa l’unanimità, e sicuramente non piace alle formazioni più piccole, e forse nemmeno all’elettorato ticinese, sempre sensibile al tema delle «minoranze» (sociali, linguistiche, religiose).
Infine si è notata la latitanza degli intellettuali. Qualcuno si è candidato, è vero, ma i più sono rimasti alla finestra, un po’ schifati per quanto avveniva nell’arena. Certo, anche qui, è finita l’epoca in cui partiti e associazioni amavano rivolgersi all’intellighenzia per giustificare scelte e definire strategie. Questa esigenza non è più avvertita nell’epoca dei canali sociali e dell’infocrazia, dei duelli urlati e delle chiacchiere. D’altra parte il divorzio tra la politica e la cultura si era già consumato al principio degli anni 90 del secolo scorso. Eppure gli argomenti non mancano per coinvolgere maggiormente le donne e gli uomini di pensiero. Si pensi alla scuola, alla transizione energetica, alle emergenze ambientali, al traffico, al mercato del lavoro, alle migrazioni, alla demografia, alle disuguaglianze. Una politica che si vuole lungimirante non potrà fare a meno di nutrirsi delle competenze attive nel territorio a partire dalla coppia Usi-Supsi.