Da laico lettore: ma è corretto che il giornalista si comporti come un tifoso? La domanda si pone, davanti a certe sgangherate scelte di campo della stampa, compresa quella di antico prestigio; mi riferisco a quanto accaduto ai tempi dell’emergenza sanitaria, poi con l’invasione russa e ora nella campagna elettorale sprint per le politiche italiane (da noi, tipicamente, il lupo).
È evidente, e doveroso direi, che un giornalista possa esprimere opinioni, nella misura tuttavia in cui questo specifico pulpito venga chiaramente indicato al lettore. Un diritto professionale che può essere esercitato anche da coloro che agiscono nel contesto del servizio pubblico; le norme che regolano l’attività della Rsi impongono ad esempio di qualificare chiaramente (e preventivamente) quando lo spettatore si trovi davanti a un commento, e quando no, ciò che significa che – con buona pace di surreali diktat "pubblici" contro il giornalismo di opinione – in questi limiti i commenti e le opinioni sono possibili. Certo, i giornalisti tengono famiglia e ambizioni di carriera, ed è spesso assai comodo starsene tranquilli, ben allineati e coperti, salvo poi coraggiosamente maramaldeggiare sulla Croce Rossa quando se ne presenti l’occasione. Suscita in taluni qualche insuperabile ambascia anche il solo avventurarsi sul campo impervio degli approfondimenti e delle inchieste, come se la scelta del tema, lo scoperchiamento di qualche pentola e il tentativo di capire e di spiegare le cose fossero di per sé pericolosi, e non una componente essenziale del mestiere.
Le cose si fanno più complesse in ambito di talk show politici, in cui sono rari i conduttori che non si accampino come commentatori, addirittura come se la manifestazione delle loro opinioni truccate da domande fosse la vera giustificazione della presenza degli intervistati. La risposta diventa così il mero pretesto per qualche egocentrico squadernarsi dell’opinione dell’intervistante; come se già non sapessimo molto bene che cosa pensa e che cosa dirà costui, come se non ci interessasse di più il parere degli altri partecipanti, come se non osassimo sperare in qualche acuta domanda con il corollario dell’interesse di sentire la risposta. Invece, tutto come previsto, domande puntualmente più lunghe delle risposte, e costante e delegittimante linguaggio del corpo sulle risposte. Non mi riferisco agli squallidi spettacoli manicomial-circensi che popolano talune reti, ma agli spazi paludati in cui si aggirano personaggi come l’ineffabile Vespa, la baritonale Merlino, o la plastica Gruber. Dove una verniciatina di professionalità, una patina di aplomb anglosassone, non nasconde mai l’ambizione imperialistica del conduttore; "la trasmissione è mia, il pubblico anche, e gli intervistati non sono che dei figuranti al servizio del mio messaggio". Nessuna meraviglia che, suscitando immotivato sdegno della conduttrice, uno dei poveri intervistati sia di recente incespicato nel termine "campagna" per descrivere il quotidiano spot pre-elettorale che "Otto e mezzo" infligge a sostegno della cosiddetta sinistra e a ludibrio di tutti gli altri; al punto che, devo ammettere, la platealità dell’esercizio, e il deficit evidente di buona fede, suscita in me (purtroppo) qualche inconfessabile speranza.
Tutta questa contaminazione tra descrizione dei fatti e opinione è diventata plateale nei temi citati in ingresso, nelle cronache che leggiamo sui giornali o troviamo sui media elettronici. Titolisti e giornalisti scatenati parlano di "farse", di "zar" e di "dittatori" nei luoghi deputati alla rappresentazione dei fatti, che è sempre meno descrizione o approfondimento e sempre più una sorta di comizio, spesso dominato da etica a geometria variabile; e nemmeno più in modo lievemente subliminale, ma platealmente squadernato (insulti compresi) a un pubblico di lettori e di spettatori che hanno ormai fatto trascolorare nell’apatia e nell’indifferenza lo stupore/sdegno che pur li aveva colti all’inizio di questa autentica deriva. Un giornalista vero aveva parlato e scritto anni fa della "scomparsa dei fatti" come caratteristica dell’informazione e della politica, e a questo appunto siamo arrivati. È uno dei motivi per i quali certa stampa, e la quasi totalità di quella italiana, è divenuta fastidiosa, monocorde, quasi illeggibile. Non c’è bisogno di essere specialisti per capire che si tratta di un ulteriore, e vagamente tragico, effetto collaterale della dinamica innescata dai social e dagli altri strumenti con i quali si tende ormai ad accedere immediatamente a una "realtà" mediata e semplificata, con tanti saluti per la complessità del reale, e poi per la cultura, la riflessione e la fatica dell’apprendere e del comprendere. Stupisce un po’ che la cosiddetta "stampa scritta" abbia scelto una modalità di questo genere, nel tentativo di salvarsi il futuro; senza capire che è questo appiattimento su una narrazione minima, ideologica e semplicistica che le scava per davvero la fossa. Quando la stampa scimmiotta la narrazione faziosa e banale dei social, perché stupirsi se il pubblico sceglie il modello gratuito e non la copia a pagamento?