Il già consigliere di Stato Pietro Martinelli contesta la proposta: sono i tagli fiscali a minacciare la sostenibilità dei conti pubblici
"Un colpo da maestro…. un successo incredibile, fantastico". Forse si è lasciato prendere da eccessivo entusiasmo partigiano, il conduttore di Teleticino che qualche tempo fa ha salutato così l’iniziativa elaborata di Sergio Morisoli che voteremo il prossimo 15 maggio, tanto che perfino Paolo Pamini lo ha invitato ad aspettare il responso popolare. Poi lo stesso conduttore ha un poco ridimensionato la sua esaltazione, chiedendosi: "Ma questa iniziativa è puramente declamatoria?"
Ecco, questo è un interrogativo sicuramente più significativo di tanti slogan. L’iniziativa che pretende di imporre il pareggio del conto economico entro il 2025 è solo un insieme di vuote parole? Magari. Ma temo che essa tenda piuttosto a modificare in modo illiberale le nostre istituzioni, impedendo un confronto democratico su come conciliare il pareggio della gestione corrente della spesa con una risposta adeguata a crescenti responsabilità ed esigenze di servizi essenziali per tutti i cittadini, economia compresa. Penso alle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione, al problema sanitario, al problema della formazione dei nostri giovani e allo sviluppo dell’università, al problema energetico, al problema delle disparità crescenti, al problema ambientale legato alla crisi climatica e alle conseguenti migrazioni di intere popolazioni scacciate dall’avanzata dei deserti. Problemi che solo la collaborazione degli Stati democratici, dei quali nel nostro piccolo facciamo parte, possono affrontare in modo coerente. L’iniziativa Morisoli si propone di paralizzare il dibattito politico fondamentale, quello sulla spesa, con la scusa dei frequenti deficit di esercizio. Deficit che non ci sarebbero stati se solo il Cantone non avesse azzoppato sé stesso inseguendo sgravi fiscali improvvisati e irragionevoli.
Uno sguardo alla storia recente permette di sostanziare coi fatti queste affermazioni. La spesa pubblica, infatti, non è affatto cresciuta in modo incontrollato come sostiene Morisoli. A smentirlo sono i dati: dal 1990 al 2020 la spesa corrente del Cantone – ammortamenti compresi – è aumentata proporzionalmente ai dati conosciuti del nostro prodotto interno lordo, anzi un po’ di meno: +218% contro +237%.
Quando poi Morisoli dice che "un vero e proprio risanamento finanziario non è mai stato affrontato" dai tempi della "ormai lontanissima legislatura 1995-99", occorrerà chiarire quanto elaborato ai tempi dall’esecutivo di cui io stesso facevo parte. Insieme a Marina Masoni e allo stesso Morisoli, ci trovammo a varare una manovra per affrontare le difficoltà economiche di fine secolo, quando il Pil – dopo il ‘no’ popolare all’ingresso nella Comunità economica europea – conobbe una brusca frenata e il rosso per le casse del Cantone fu di 380 milioni in tre anni. Fu, quella, un’operazione basata sulla "simmetria dei sacrifici": prevedeva cioè un contenimento dei costi, ma anche misure sociali per i meno abbienti e qualche maggiore entrata. L’effetto sui quattro anni successivi fu positivo.
Al deficit complessivo del periodo 2000-2020 (1’300 milioni) contribuì invece la lunga serie di sgravi fiscali introdotti successivamente, risultato di una vera e propria gara a chi ne proponeva di più tra la Lega, alla quale va attribuito il "calcio d’inizio", e il Governo: un rapido conteggio permette di stimare a oltre 300 milioni annui l’impatto negativo sulle entrate fiscali delle deduzioni per persone e imprese nel corso, in particolare, nei primi anni del XXI secolo. Misure perlopiù scriteriate, dalle quali il ceto medio-basso ottenne solo qualche spicciolo, mentre resero ancora più ricco il ceto agiato, in particolar modo l’1% di ricchissimi. Il tutto con la scusa della competitività fiscale. Un "mito" che perfino "Ticino Management", rivista non certo di sinistra, ha pesantemente messo in discussione titolando lo scorso marzo: "Competitività: la fiscalità non è decisiva", e aggiungendo che "spesso si dà troppa importanza alla fiscalità e questo ha portato al crollo generalizzato delle aliquote" (sic) anche perché "gli elementi chiave che cercano le aziende sono ben altri".
È da questi tagli delle entrate, e non dalla crescita della spesa, che arrivano gli scompensi dei conti pubblici. Ed è su quest’ultimo punto che occorrerà riflettere, specie se si prevede che il futuro aumento della spesa pubblica sarà dovuto non a chissà quale sperpero, bensì all’aumento delle emergenze sociali, ambientali, economiche, sanitarie e politiche. Legarsi le mani sostituendo il dibattito e il confronto democratico con una formula matematica rigida e astratta – in un mondo che sta cambiando in modo imprevisto e spesso drammatico a una velocità "disumana" – demonizzando l’investimento pubblico, non potrà che limitare la capacità di governo e parlamento di amministrare le risorse pubbliche a sostegno del Paese, come richiesto dalla nostra Costituzione.
Per favorire un confronto costruttivo sarebbe opportuno quantomeno lasciare da parte la volgare retorica che accusa lo Stato di "mettere le mani nelle tasche dei cittadini", espressione berlusconiana cara anche alla nostra Lega, che di recente ho ritrovato sul ‘Corriere del Ticino’ proprio in una domanda a Morisoli. Formulazione tendenziosa, che parte dal presupposto che lo Stato sia anzitutto un ladro, non un fornitore di servizi essenziali per tutti, compresi quelli che non potrebbero permetterseli. Parole che spesso fanno il paio con la retorica del non lasciare debiti alle nuove generazioni, dimenticando ancora una volta che per le nuove generazioni i debiti più gravi saranno quelli cosiddetti "occulti": i "debiti" delle riforme rimaste nel cassetto, delle cose necessarie rimandate e non fatte, di un paese che resta indietro perché non ha saputo leggere il presente per immaginare il futuro. I costi che le nuove generazioni dovranno affrontare per porre rimedio alle riforme rinviate e ai mancati investimenti infrastrutturali, in formazione, trasporti, protezione ambientale e salute pubblica. Un costo che potrebbe diventare salatissimo, come lo furono alla fine degli anni Sessanta quelli per la protezione delle acque, per la riforma della scuola media, per la riforma ospedaliera e, costosissimo, quello dell’assicurazione malattia (prima della Lamal). Un conto al quale si cercò di porre rimedio con la legge tributaria del 1976, quella stessa legge che poi, purtroppo, ha subito continue correzioni al ribasso.
In un’ulteriore iniziativa parlamentare presentata assieme a quella che voteremo il 15 maggio, Morisoli per decidere la spesa di ogni anno ha proposto una formula matematica, anche se poi è incappato in grosse difficoltà quando ha cercato di spiegare come si sarebbe dovuta applicare. Pur con tutto l’amore che ho per la matematica, non è di formule astratte che tendono a uccidere il dibattito politico che il Paese ha bisogno, ma di un confronto aperto e ragionato come, in parte, avvenne negli anni Settanta, anche con il contributo di un’attiva opposizione di sinistra. La matematica può servire per capire i problemi politici, ma non per prendere le decisioni che sono un problema di coscienza e non una formula e neppure una gabbia.
Il 15 maggio votiamo per favorire il confronto democratico, votiamo NO al "colpo da maestro" illiberale e liberista di Morisoli.