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Riscaldamento globale: fra illusioni e pragmatismo

(Ti-Press)

-1,5°? -2°? A quanto vogliamo o dobbiamo limitare il riscaldamento globale per scongiurare scenari che taluni non esitano a definire apocalittici? Sulla risposta a questa domanda anche gli esperti non sono unanimi. Fissare degli obiettivi politici non è sicuramente sbagliato. Diventa però pericoloso se queste cifre diventano specchietti per allodole e si traducono in affermazioni declamatorie (i famosi bla bla…) lontane da qualsiasi legame con la realtà. Un interessante contributo di Walter Rüegg sulla Nzz qualche settimana fa illustra alcuni paradossi che mi sento di condividere.

Sono passati due secoli da quando l’umanità ha iniziato a ricorrere su ampia scala a combustibili fossili che hanno consentito di raggiungere un benessere senza precedenti: il tasso di povertà estrema da allora è crollato dal 94 al 10%, la speranza di vita è raddoppiata, la popolazione mondiale è esplosa. Il prezzo da pagare? L’emissione di 2’000 miliardi di tonn. di CO2 nell’atmosfera, sinonimo di un riscaldamento globale pari a 1,2°.

Calcoli alla mano, i ricercatori indicano che la volontà di limitare il riscaldamento futuro a 1,5° permette l’emissione di soli 350 miliardi di tonn. di CO2, o di 1’100 miliardi se l’obiettivo è restare sotto i +2°. Oggi emettiamo 40 miliardi di tonn. di CO2 ogni anno: il contingente sarà dunque esaurito tra 10, rispettivamente 30 anni.

Un’analisi della prestigiosa rivista scientifica "Nature" ha stimato che tutti gli impianti e motori oggi esistenti nel mondo emetteranno, nel resto del loro ciclo di vita, ancora 650 miliardi di tonn. di CO2. Per raggiungere l’obiettivo di +1,5 gradi non dovremmo dunque più creare nuovi impianti o motori che emettano CO2 e rottamarne subito la metà esistente. Abbiamo quindi un problema, anzi, due.

Oggi 800 milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà ed è noto che, ad esempio, le centrali a carbone costituiscono il mezzo più veloce ed economico per generare energia nei Paesi in via di sviluppo. Non sorprende quindi che siano in fase di progettazione o costruzione diverse centrali a carbone, soprattutto in Asia. Dobbiamo forse ammettere che la prima condizione di non costruire nuovi impianti non può essere soddisfatta, già solo per ragioni umanitarie. Anche rottamare la metà degli impianti/motori esistenti e sostituirli con impianti alternativi alimentati da energie rinnovabili ci pone davanti a un ostacolo per ora insormontabile. La sostituzione immediata con energia fotovoltaica imporrebbe il consumo di enormi quantitativi di materie prime, oggi non disponibili e non permetterebbe di stoccare e garantire l’energia nei momenti in cui queste fonti rinnovabili (sole, ma anche vento) non sono disponibili.

Si abbia quindi l’onestà di guardare in faccia la realtà, con pragmatismo e senza continuare ad alimentare illusioni: indipendentemente dai (di solito modesti) risultati delle conferenze sul clima, gli obiettivi posti sono declamatori e irrealizzabili. Beninteso, non per questo gli sforzi intrapresi vanno abbandonati – e soprattutto vanno promosse le tecnologie e le ricerche innovative che contribuiranno a risolvere la sfida climatica – ma servono anche riflessioni su come convivere con il fenomeno del riscaldamento globale. Anche il Parlamento federale farebbe bene a chiedersi – in vista dei dibattiti sulla Legge sulla protezione dell’ambiente e la nuova Legge sul CO2 – se saranno tasse e divieti a risolvere il problema ambientale, o piuttosto condizioni idonee per superare tecnologicamente le sfide oggi ancora insormontabili nell’ambito della produzione e dello stoccaggio di energie rinnovabili. A meno di non riaprire il dibattito sulle centrali nucleari, che garantirebbero la produzione di una grande quantità di energia elettrica senza emissioni di CO2. Ma di questo tema ce ne occuperemo in un prossimo contributo.