laR+ I dibattiti

La Cpi, ancora?

26 novembre 2021
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I fatti perpetrati dall’ex funzionario del Dss, esposti in modo pacato e oggettivo nella trasmissione della scorsa settimana, “Falò”, e il susseguente dibattito di martedì scorso a TeleTicino a proposito del compito che ora incombe al Gran Consiglio, mi inducono a esprimere pubblicamente la mia opinione.

Innanzitutto sono gravi al punto di minare la fiducia del cittadino nello Stato, per cui le Istituzioni non possono non reagire. Però non si tratta di entrare nel merito, ossia ridiscutere cosa, come e dove sono avvenuti. Vi è una sentenza cresciuta in giudicato, secondo la quale sono gravissimi (al punto che, fatto eccezionale, il presidente del Tribunale penale cantonale ha chiesto pubblicamente scusa alle vittime a nome dello Stato) e l’autore è stato condannato, per cui Giustizia è fatta. Per lui. Per le vittime e per noi non ancora, in quanto rimane un grave e delicato interrogativo: come mai sono potuti capitare e, soprattutto come mai l’illecito ha potuto protrarsi impunemente per anni? Questo occorre chiarire sino in fondo, perché il Potere è già indebolito, il continuare a tacere è motivo per criticarlo di più, quindi chi sapeva e ha taciuto deve essere rivelato e, se del caso, punito: le vittime, legittimamente lo esigono affinché le loro sofferenze non siano vane e lo Stato è debitore nei loro confronti. Allora chi di dovere?

Non il Consiglio di Stato, come è stato auspicato da un partecipante a detto dibattito. Questo perché, considerato il protrarsi per anni della condotta illecita e palese in un ambiente ristretto, vi è il legittimo sospetto che i quadri superiori sapevano o dovevano sapere, che il Direttore del Dipartimento competente non ha organizzato in modo efficace l’informazione, dal basso verso l’alto, e che a lui o ai suoi colleghi qualche voce sia giunta, anche perché, in quel tempo, delle molestie sessuali si rideva e gli autori si vantavano delle loro prodezze. Orbene, stando così le cose, è mai possibile immaginare il Consiglio di Stato indagare su un suo membro o sui suoi collaboratori? I rapporti tra i suoi membri, fortunatamente, sono tali, che processualmente si giustificherebbe la ricusa per titolo solidarietà.

Allora la Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi). Ho avuto modo di dimostrare, su questo quotidiano (all’inizio del 2018), che questo Istituto è inconciliabile con i principi fondamentali della Democrazia, addirittura con il comune buonsenso. Di conseguenza mi limito a un solo argomento, che però è un “morgenstern”: la Cpi ha un peccato capitale originale, perché incarna al tempo stesso i tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, per cui non offre e non può offrire l’indipendenza e l’imparzialità, ossia gli attributi costitutivi di una Giustizia serena e oggettiva: in essa, ineluttabilmente, serpeggia, in modo più o meno larvato, l’elemento politico. Un esempio tratto da quel dibattito? Eccolo: il fatto a sapere se un deputato, in altra occasione ha votato o meno la CPI, è più che umano e comprensibile anzi dovuto, ma è polemico, quindi politico e non un argomento a favore o contro l’Istituzione. Si noti che anche una Cpi “pura”, appunto a causa della sua natura, comporta il sospetto di imparzialità, il che mina il consenso nelle Istituzioni. Ciò attesta l’importanza della forma, il che mi induce a citare il prof. Louis Renault, presidente della Corte permanente di giustizia dell’Aia (l’unico Istituto della Società delle Nazioni che ha funzionato bene), a giustificazione del “Giudice ad hoc” quando uno Stato, parte in causa, non ha un membro nella Corte: “Non è sufficiente che la Giustizia sia giusta, deve anche sembrare tale”. Prima di lui “forma integritas rei” (la forma e la sostanza sono indissolubili), ha insegnato Aristotele.

Rimane quindi l’audit esterno, a mio giudizio ticinese, poiché dà maggior garanzia di indipendenza e oggettività, in quanto i suoi membri vivono e continuano a vivere qui e qui saranno giudicati per il loro operato.