L'associazione ticinese dei giornalisti (Atg) ha recentemente allestito uno studio sul tema del “citare i nomi” nell'intento di modificare la norma della nostra procedura penale che vieta di divulgare le generalità delle vittime (ripetiamo: le vittime) di un reato. Una proibizione che, peraltro, vale tanto per i privati (quindi non solo per i giornalisti) quanto per le autorità e, ovviamente, solo se la persona interessata non acconsente. Il tentativo di approfondire la questione merita molto apprezzamento e, come spesso accade quando si studia un argomento, sono per finire sostenibili opinioni diverse.
Osservo, anzitutto, che l'evoluzione sociale in atto potrebbe da sola superare, ahimè, il problema che preoccupa l'Atg. In quest'epoca di fine della privacy sono infatti sempre più sovente le stesse vittime a cercare i media e non il contrario. Si potrebbe dire, visto il tema di cui parliamo, che oggi i nomi inseguono i media almeno quanto i media rincorrono i nomi. Ciò detto, mi domando perché sembri così importante pubblicare le generalità di chi ha subito un crimine. Un'ipotesi è la costanza di chi, soprattutto in ambito di cronaca giudiziaria, ne ha fatto da anni un tema. In ogni caso, la questione tocca zone calde del giornalismo attuale, ad esempio il suo rapporto con la sfera privata, l'effetto delle reti sociali, di Google e affini sui media tradizionali, la relazione tra emozionalità e fattualità, la volatilità dell'attenzione del pubblico, la concorrenza tra i media e le loro difficoltà economiche. Non sarà, allora, che i fare i nomi costituisca una risorsa nella lotta per essere seguiti? O rappresenti una risposta imitativa ai social-media e all'online in genere? O un adeguamento alle pratiche della concorrenza internazionale?
Per parte mia, salvo che divulgare le generalità della vittima sia davvero necessario per tutelare adeguatamente un prevalente pubblico interesse, non ne vedo l'utilità informativa. Peraltro, se pubblicizzare l'identità di chi ha subito un reato fosse davvero indispensabile nel senso che ho appena indicato, il farlo potrebbe (anzi, a mio avviso dovrebbe) essere comunque già oggi non punibile. Come che sia, divulgare nomi e cognomi non è un fine in sé, si sarebbe sennò in un ambito più anagrafico-archivistico che pubblicistico. Piuttosto, mi pare l'inizio di un copione noto: l'intervista alla vittima o a chi le sta vicino, l'attenzione al suo immancabile profilo social, la ricerca degli altrettanto abituali testimoni o esperti che dicono la loro. In un’epoca di privacy minacciata, ma anche di vittimismi e risentimenti trionfanti, sappiamo dove ciò possa condurre, indipendentemente dalle volontà di ognuno. Tutto ciò per davvero aiutare chi ha subito un reato? Per sensibilizzare il pubblico alla sua situazione? E, per farlo, occorre proprio indicare nome e cognome di chi ha sofferto?
Mi permetto d'invitare a vedere anche la foresta e non solo l'albero: “fare il nome” delle vittime rinvia a una certa cultura giornalistica. Chi ne rivendica con insistenza il diritto, quali che siano le sue intenzioni soggettive, non aiuta ad ampliare la libertà del giornalismo informativo ma, purtroppo, lo pressa ulteriormente verso ciò che sappiamo. Non a privilegiare i fatti, ma le emozioni, non il contesto, ma i momenti, non le ragioni, ma i giudizi. Uno stile giornalistico del tutto legittimo, per carità, che richiede talento e merita libertà, ma guarda altrove rispetto all'informazione. Bisogna favorirlo? Chi vuole eliminare il discusso divieto (peraltro né rispettato né controllato con proprio absburgica precisione) potrebbe, per finire, ritrovarsi ben oltre l'obiettivo che persegue. Anche sulla questione del “fare i nomi” non basta un'etica delle intenzioni, fossero, come non dubito, le migliori, ne serve anche una della responsabilità. Credo valga la pena pensarci, nel rispetto degli argomenti di tutti.