La società civile ha chiaramente espresso le proprie perplessità di fronte alle politiche di gestione e di comunicazione. E si attende una risposta.
Il 5 di dicembre del 2020, è comparso un articolo di Ivo Silvestro dal titolo “Non abbandoniamo Rete due”. Da allora, su queste pagine (e poi, timidamente, anche su altre testate) compaiono praticamente ogni giorno diversi articoli in difesa dell’identità dell’attuale rete culturale. Sono intervenuti storiche, scrittori, politiche, insegnanti, artiste, giornalisti, sindacaliste, architetti, bibliotecarie, economisti, ex dipendenti, ascoltatrici ed estimatori della Rete due ma anche, verrebbe da dire rileggendo i vari contributi, affezionati utenti di quel Servizio pubblico che riesce ancora, con sempre più fatica, a compiere dignitosamente il proprio mandato, malgrado i già significativi tagli, nell’informazione e nella cultura.
Parallelamente a tutti questi interventi, il giornalista Graziano Terrani ha lanciato, sul sito Campax, una petizione in difesa del canale radio che ha raccolto in pochi giorni 7000 firme e oggi è abbondantemente al di sopra delle 10000. Un mese di riflessioni approfondite e di appelli corposi e di numerosi comunicati stampa di associazioni ed enti culturali, senza contare un’importante interpellanza parlamentare a livello federale e la presa di posizione della Commissione formazione e cultura del Gran Consiglio. Nonostante un doppio ruolo quantomeno delicato di Luigi Pedrazzini (presidente della Corsi e al contempo vice-presidente del Consiglio di amministrazione della SSR!), anche i due consessi della Corsi si sono espressi chiaramente e il Consiglio regionale della stessa ha chiesto, com’è in suo potere, di sospendere di suonare quella Lyra stonata. Tutti hanno testimoniato in favore della necessità di salvaguardare il canale radio che assicura serietà, approfondimento, desiderio di cartografare la complessità del territorio che viviamo, ma che soprattutto rappresenta la quintessenza del mandato politico e sociale che la SSR è tenuta ad assolvere. Proprio su questo punto la concessione è esplicita: informazione, formazione e cultura sono alla base del servizio di mandato pubblico, tre sono le reti radiofoniche e il web accompagna, non sostituisce, il lineare.
Una levata di scudi rara e potente nella Svizzera di lingua italiana, che esemplifica il disagio che sempre più si nutre nei confronti della politica della RSI, sia essa culturale e di programmazione o aziendale (quest’ultima sempre più oggetto di critiche e di inquietanti punti interrogativi). Un disagio profondo che è lungi dal riguardare solo la questione Rete Due e che emerge anche nei social tra le persone che credono nella necessità di un servizio radiotelevisivo nazionale forte. La RSI è un collante sociale, grazie ai suoi ruoli culturale e d’informazione, in particolare per una regione come la nostra, che rischierebbe altrimenti di trovarsi ancor più china sul proprio ombelico e in un paesaggio mediatico non solo molto locale, ma anche traversato da relazioni aziendali, professionali e personali rischiose per il mantenimento di un reale sistema d’informazione plurale. Piaccia o no, la SSR è l’unica che ancora sottende a un controllo, pur sommario, e sulla quale possiamo esprimerci. Il resto, lo paghi e taci.
Questo disagio è stato accolto e ascoltato, come ci si attenderebbe da un’azienda sostenuta col nostro denaro? No. La risposta di Gilles Marchand, che circola su internet, è un esempio lampante di supponente inconsistenza, così come molto pericolosi sono i densi silenzi della RSI e di tutte quelle innumerevoli persone che si occupano di queste ridefinizioni strategiche, ridefinizioni che comportano sempre e comunque una diminuzione del personale e un ridimensionamento delle capacità di produzione. La panacea di ogni nostro male è ovviamente il transmediale, concetto che ci viene venduto come Colombo cercava di rifilare le biglie di vetro ai nativi americani. Ci si prende un po’ per fessi parlando di transmediale, quando molti di noi sono bene al corrente di cosa significhi e lo usano anche quotidianamente. Transmediale, come minimo, non è semplice migrazione di contenuti in nicchie invisibili ai più, è semmai una stretta collaborazione tra i vari media, nello specifico fra un lineare forte e una serie di offerte ulteriori in altre sedi. Transmediale significa aggiungere, non togliere, come si sta facendo in tutta la Svizzera con i secondi canali, ma si direbbe anche in parte con i terzi canali radiofonici. Inoltre, in una società in cui i numerosi saperi sono inscatolati in nuclei autonomi e la frammentazione regna sovrana, un media di servizio pubblico è tenuto a fare uno sforzo in senso contrario, offrendo nella maniera più semplice possibile, lineare appunto, l’insieme di queste conoscenze. Il servizio pubblico, insomma, ha l’opportunità e forse la responsabilità di fornire una chiave di lettura del mondo solida e professionale in un panorama liquido, di garantire la pluralità delle opinioni a confronto e non separate in compartimenti stagni. Tutte le cittadine e i cittadini devono poter avere accesso alle stesse informazioni e agli stessi approfondimenti.
Ma la cosa ancora più incredibile è che sta a noi utenti giustificare il nostro attaccamento alla radiotelevisione di servizio pubblico e alla concessione, come ai tempi della No Billag, quando molti di noi hanno partecipato attivamente alla campagna, mentre la direzione stava già cominciando a smantellare; la stessa direzione, sia detto per inciso, che si scoprirà in seguito aver taciuto i casi di mobbing e di molestie alla Radiotelevisione della svizzera romanda (Rts). Due cose sembrano unire, dunque, la Rts e la Rsi, la presenza di molestie e di una cultura aziendale in cui regna il disagio, ma anche la malcelata volontà di emarginare la cultura alla radio; lo stesso sta avvenendo alla radio svizzero tedesca, malgrado le numerose prese di posizione contrarie. Quello che ci si sta togliendo non sono semplici parole, ma l’essenza stessa del mandato di servizio pubblico. E non è finita.
Proviamo dunque a riassumere, in dieci domande, quello che è emerso dalle prese di posizione pubbliche:
La società civile ha chiaramente espresso le proprie perplessità di fronte alle politiche di gestione e di comunicazione sia della direzione della Ssr sia della Rsi. Le risposte, a oggi, sono state superficiali, fragili, imbonitrici. Come se il servizio pubblico fosse cosa loro e noi dovessimo pagare il canone e tacere. Rispondere, a volte, non è cortesia, è un dovere.