‘Ho scelto la libertà al posto di una giustizia impossibile da realizzare. Non sono libero perché il sistema ha funzionato’
"Ho scelto la libertà al posto di una giustizia impossibile da realizzare. Non sono libero oggi perché il sistema ha funzionato: sono libero perché mi sono dichiarato colpevole di giornalismo". Julian Paul Assange parla per la prima volta da uomo libero, dopo aver trascorso quattordici anni della sua esistenza nell'ambasciata ecuadoriana a Londra e in detenzione nel carcere britannico di massima sicurezza di Belmarsh per aver divulgato centinaia di documenti scottanti del Dipartimento di Stato americano.
Un patteggiamento sofferto, nelle sue prime parole affidate ai parlamentari del Consiglio d'Europa, dettato dalla prospettiva di una condanna a 175 anni di carcere e dalla consapevolezza che le tutele legali per giornalisti e whistleblower "erano soltanto pezzi di carta, reinterpretate per convenienza politica" sotto la "pressione" degli 007 americani. La testimonianza davanti alla commissione Affari giuridici e diritti umani dell'assemblea parlamentare di Strasburgo comincia dalla fine, dal patteggiamento e dall'essersi dichiarato "colpevole di cospirazione per ottenere e diffondere informazioni sulla difesa nazionale".
Il giornalista australiano si schiarisce la voce più volte e, affiancato dalla sempre presente moglie Stella, ripercorre i momenti più difficili del suo calvario giudiziario, descrivendolo come uno spartiacque per la sua vita privata e per la libertà di informazione e di espressione in tutto l'Occidente. Decidendo di perseguirlo, è il controcanto di Mr. WikiLeaks, "il governo degli Stati Uniti ha criminalizzato il giornalismo" e "oltrepassato il Rubicone": da quel momento, è stato "affermato un nuovo principio secondo cui solo i cittadini americani godono della libertà d'espressione, mentre gli europei e i cittadini del resto del mondo no".
Keystone
Un cartello pro Assange
"L'esperienza dell'isolamento per anni in una piccola cella è difficile da trasmettere. Spoglia il senso di sé, lasciando solo l'essenza dell'esistenza", confida Assange - accompagnato anche dal caporedattore di WikiLeaks, Kristinn Hrafnsson - scusandosi per le sue "parole esitanti". "Nell'emergere dalla prigione di Belmarsh mi è sembrato che adesso la verità sia meno discernibile e mi rammarico di quanto terreno sia stato perso durante questi anni", fino a vedere oggi - a partire anche dalla copertura delle guerre in Ucraina e a Gaza - "più impunità, più segretezza, più ritorsioni contro la verità e più autocensura". Un rammarico e un monito, quello di una libertà di espressione giunta "a un bivio oscuro", trasmessi ai delegati del Consiglio d'Europa che si apprestano a discutere un rapporto sul suo caso e sulle conseguenze per la libertà di stampa.
Il dito di Assange è puntato contro la vendetta americana nei suoi confronti messa in atto dalla Cia. "Washington dichiara che la sua legge sullo spionaggio si applica ai non americani, non importa dove si trovino, quindi gli europei devono obbedire senza possibilità di difendersi". E dunque dovrà essere l'Europa, nell'esortazione dell'australiano, ad agire per tutelarsi partendo dal presupposto che, "ora che un governo ha affermato che gli europei non hanno il diritto a esprimersi liberamente, è stato fissato un precedente pericoloso" e "non c'è nulla che possa fermare la Russia dal fare lo stesso nei confronti dei giornalisti europei".
Alla fine della testimonianza, il parlamentare croato Ivan Racan si sposta sul piano esistenziale. "Cosa farebbe di diverso se potesse tornare indietro nel tempo?", gli chiede. Col senno del poi, Assange forse qualche "mossa" la cambierebbe. Il suo avvertimento finale però guarda al futuro: "Agire perché quello che è successo a me non accada più a nessuno" e perché "tutti i giornalisti" siano "attivisti per la verità".