I trafficanti abbattono centinaia di migliaia di alberi, nonostante il limite imposto, per soddisfare i ricchi cinesi. Chi denuncia rischia la vita
Sono numerosi i termini per definire una delle specie di legname più preziose e minacciate del Sahel. Nel sud-ovest del Mali, dove si trovano gran parte delle riserve della famiglia dei pterocarpus erinaceus, la popolazione locale usa nomi come hongmu, kosso, keno, o legno venoso, più comunemente noto come “rosewood”, il legno rosa. Questi alberi possono raggiungere i 300 anni di età e quando vengono feriti a colpi di machete sprigionano un fluido rosso-sangue lungo i bordi interni della corteccia. Trafficato in Mali come in molti altri Stati della regione, il rosewood è protetto dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (Cites) che limita la quantità di alberi da abbattere ed esportare. Negli ultimi dieci anni, però, il traffico di questo particolare palissandro è aumentato notevolmente.
Il sistema viene gestito da una rete di potenti funzionari governativi nella capitale maliana, Bamako. La destinazione principale della merce è la Cina. “Il legno rosa è una specie tradizionalmente e culturalmente molto apprezzata dai cinesi – ha sottolineato alla stampa Haibing Ma, esperto di Asia presso l’organizzazione internazionale, Environmental Investigation Agency (Eia) –. Quindi, per questo tipo di legname, c’è una domanda quasi insaziabile”. Secondo un recente rapporto della Eia, dal 2017 la Cina ha importato oltre mezzo milione di alberi di kosso maliano per un valore di circa 220 milioni di dollari. Un tempo il rosewood veniva abbattuto soprattutto nel sud-est asiatico ma, a causa del disboscamento eccessivo in quell’area, nel 1998 le autorità sono state costrette a imporre un “Programma nazionale cinese per la protezione delle foreste”. È così che alcuni cinesi legati al crimine organizzato in patria hanno iniziato a prendere di mira l’Africa.
Grazie alla sua “resistenza, compattezza e durezza”, il legname rosa viene utilizzato per la fabbricazione di mobili di lusso, pavimenti, strumenti musicali e oggetti di vario genere come gli scacchi. Sebbene il Mali ne abbia vietato l’esportazione nel 2020, da allora sono state spedite in Cina oltre 150mila tonnellate di rosewood, pari a 220mila alberi abbattuti. Le ragioni per cui sembra impossibile fermare questo commercio illegale sono principalmente due: in primis, tutti gli organismi governativi, inter-governativi e non governativi sono coinvolti in qualche modo.
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Tronchi pronti per raggiungere il porto di Dakar
I trafficanti hanno infiltrato gli ultimi due governi maliani: quello del defunto presidente, Ibrahim Boubacar Keita, e quello attuale del colonnello golpista, Assimi Goita. Inoltre, i “facilitatori” occuperebbero paradossalmente dei ruoli anche all’interno di organismi come le Nazioni Unite e associazioni ambientaliste dedite a contrastare il traffico di rosewood in Africa occidentale. La seconda ragione riguarda l’opportunità di usare i tronchi per trafficare altre merci illegali come avorio, pelli di animali e droga. Il traffico di “tek africano” è stato persino denunciato dalla propaganda jihadista che si è proclamata come l’unica forza in grado di sconfiggerlo.
“Al momento le principali aree di approvvigionamento di rosewood in Mali si trovano nel cosiddetto triangolo sudoccidentale delle tre ‘K’: Kayes, Kéniéba e Kita”, mi spiega una fonte che per ovvi motivi di sicurezza esige l’anonimato della sua identità e del luogo in cui ci siamo incontrati. “Un trafficante cinese si è installato alcuni anni fa a Bamako con la sua azienda e, per anni – continua la fonte –, ha fatto man bassa di rosewood utilizzando trafficanti originari di altri Stati della regione per abbattere e raccogliere i tronchi da spedire nei magazzini di Bamako”. Raccogliere il kosso nelle più remote località del Mali sudoccidentale non è un lavoro semplice. La foresta brulica di animali, corsi d’acqua e alberi di altro genere che vengono abbattuti lungo il tragitto per raggiungere il prezioso “tek africano”.
I residenti di queste aree stanno cercando di fare resistenza ma senza alcun concreto successo o sostegno da parte delle autorità locali o della comunità internazionale. Seghe, accette e altre armi bianche utilizzate per ammassare migliaia di tronchi al mese sono spesso utilizzate anche per minacciare le comunità in loco e uccidere i noti elefanti del deserto. Questi ultimi, circa 350, popolano la vasta area del Gourma nella regione settentrionale di Timbuctù e sono prossimi all’estinzione. Durante l’anno sono comunque capaci di migrare per oltre duemila chilometri verso sud rischiando di essere massacrati dai bracconieri. “Ho fatto l’errore di denunciare il commercio illegale di rosewood alle autorità maliane – ammette la fonte –. Da allora sono fuggito dal Mali perché la mia vita e quella della mia famiglia sono in costante pericolo”.
Eia
In Mali infiltrazioni anche nei governi
Per anni il monopolio delle esportazioni verso la Cina è stato gestito dalla Générale Industrie du Bois Sarl (Gib) diretta da un uomo d’affari maliano, Aboubacrine Sidick Cissé, a capo di altre società con sede ad Abidjan, in Costa d’Avorio. Già nel 2016, la federazione maliana di imprenditori del legno aveva denunciato l’illegalità di tali operazioni. “Cissé, un semplice intermediario, continua a tagliare ed esportare legname maliano non trasformato a scapito dei veri imprenditori – aveva dichiarato Hambarké Yatassaye, membro della federazione che conta centinaia di piccoli e medi imprenditori del settore provenienti dalle regioni meridionale e centrale del Mali –. Con milioni di franchi Cfa, Cissé ha comprato il silenzio e i favori di molti responsabili del settore”. Secondo lo studio dell’Eia, un trafficante cinese ha pagato in un solo anno 1,7 milioni di dollari di tangenti che la Gib ha poi distribuito a una ragnatela di funzionari governativi, precedenti e attuali.
Tra i più importanti collaboratori di Cissé c’era Karim Keita, 44 anni, ex parlamentare e figlio dell’ex presidente. Da tre anni è in esilio ad Abidjan. Nel 2021 è stato oggetto di un mandato d’arresto internazionale emesso dall’Interpol e dalle stesse autorità maliane. Nel dicembre del 2022, invece, l’Office of Foreign Assets Control (Ofac) del Dipartimento del Tesoro statunitense lo ha incluso tra le quaranta personalità sanzionate per atti di corruzione a livello internazionale. Ma dopo il colpo di Stato nell’agosto del 2020 che ha messo fine all’amministrazione di suo padre, si sono formate altre quattro società: Société Africaine du Bois, Société Albarka Mali, Société de Gestion de Massif Forestier de Bai, e la Société Boiserie Farota.
Secondo gli esperti, il commercio illegale di rosewood è caratterizzato da una “corruzione profondamente radicata” che include l’uso di “permessi non validi per l’esportazione”. Decine di funzionari pubblici che hanno ricevuto tangenti per ignorare il disboscamento e il traffico di legname occupano (o hanno occupato) a Bamako ruoli decisivi nell’esercito, nei servizi segreti, nel ministero dell’ambiente, del risanamento e dello sviluppo sostenibile, e presso la Direzione nazionale delle acque e delle foreste. Altre tangenti vengono invece distribuite agli ufficiali delle amministrazioni locali, soprattutto nelle località dove il traffico di rosewood è più intenso. Questi funzionari vengono però sostituiti o trasferiti rapidamente, a volte dopo solo alcuni mesi all’interno del sistema, rendendo quasi impossibili le eventuali indagini giudiziarie locali o internazionali. “Ci si chiede se questi funzionari lascino i loro ruoli perché disgustati dalla corruzione che li circonda – sottolineano gli esperti –, oppure perché hanno preferito servirsi del traffico per un certo periodo di tempo prima di uscire dal sistema”.
I tronchi di rosewood vengono inizialmente segati e immagazzinati nella foresta prima di essere accatastati dentro centinaia di container. Una lunga fila di camion carica quindi la merce e la trasporta verso altri magazzini fuori e dentro Bamako. Successivamente, i trafficanti cinesi trapanano dei buchi all’interno dei tronchi e infilano dentro zanne d’avorio, pelli di animali e droga. Quando tutto è pronto, i convogli tornano verso la regione di Kayes. Oltrepassano il confine con il Senegal nella lugubre cittadina di Kidira distribuendo altre tangenti ai doganieri di entrambi i Paesi, e, dopo alcuni giorni di viaggio, arrivano al porto della capitale senegalese, Dakar. Se tutto va bene, il tragitto può durare meno di una settimana.
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Il palissandro africano, chiamato rosewood
Di recente solo due convogli di rosewood sono stati fermati dalla gendarmeria senegalese grazie all’intervento di alcune associazioni ambientaliste locali e straniere. Ma in entrambi i casi è bastato un giro di telefonate tra le più alte sfere della politica senegalese e maliana per permettere ai convogli di continuare il loro percorso. Gli ambientalisti denunciano da anni di non avere abbastanza risorse per contrastare i trafficanti e sono coscienti della possibilità che all’interno delle proprie organizzazioni ci siano degli “impiegati-spia” pagati dallo stesso traffico che dovrebbero combattere. Arrivati al porto, le compagnie di navigazione come la danese Maersk, la francese Cma-Cgm, e la Mediterranean Shipping Company (Msc) con sede in Svizzera, ammettono da anni di non poter controllare ogni container che passa attraverso i loro moli.
E così la merce lascia le rive di Dakar per la Cina. Lo stesso vale per il legno rosa trafficato in altre regioni del continente africano. Nel caso del Mali, l’Onu afferma che potrebbe contrastare il traffico di rosewood solo se fosse legato ai finanziamenti di gruppi armati jihadisti poiché non ci sono più relazioni con la giunta militare al potere. Quest’ultima è minacciata dalla recente offensiva lanciata verso sud durante l’estate dai militanti islamici e separatisti. Il legno rosa rappresenta solo una delle fonti di denaro liquido sfruttate dai funzionari del momento che, senza alcuno sforzo, aspettano di essere pagati per guardare dall’altra parte e non ostacolare i trafficanti. “Il rosewood maliano è un tema troppo rischioso da affrontare per i miei connazionali – conclude la fonte –. I giornalisti locali che denunciano questa realtà finiscono in prigione o sottoterra”.