I Paesi del Commonwealth, dopo i 70 anni di stabilità nel nome di Elisabetta II, ora presentano il conto del colonialismo. E in molti preparano l'addio
Sale l'attesa dei sudditi nel Regno Unito e degli appassionati in tutto il mondo per l'incoronazione di re Carlo III e della regina Camilla in programma sabato a Londra, ma accanto alle polemiche già emerse sulle proteste delle frange repubblicane e sui poteri della polizia per controllarle si aggiunge la sfida lanciata dai Paesi dell'ex Impero britannico tuttora legati alla corona all'interno del Commonwealth.
Il sovrano, portando avanti l'eredità della madre, la defunta regina Elisabetta II, intende rappresentare con la massima dedizione il ruolo di guida dell'organizzazione internazionale formata da 56 nazioni (di cui 14 reami col monarca come capo di Stato): è ben consapevole di quanto sia importante quel tipo di palcoscenico affacciato su uno scenario globale per l'attività diplomatica della monarchia.
Per questo ha accolto con tutti gli onori nella capitale del Regno i rappresentanti di quei Paesi – come il primo ministro della Nuova Zelanda Chris Hipkins ricevuto da Carlo a Buckingham Palace – ed è stata messa a disposizione degli invitati del Commonwealth alle celebrazioni perfino una nave da guerra, il cacciatorpediniere Hms Diamond, ormeggiato a Greenwich.
Ma tutti questi sforzi non bastano a frenare le spinte centrifughe rispetto al cuore dell'ex Impero che ha un passato oscuro di misfatti coloniali e schiavisti tornato a bussare alla porta di Palazzo proprio mentre si concludono gli ultimi preparativi per il grande giorno dell'incoronazione.
A farsi avanti, dopo la fine dell'epoca di stabilità durante i 70 anni di regno di Elisabetta II, sono stati i leader delle popolazioni native del Commonwealth – dai Paesi dei Caraibi al Canada fino all'Australia e alla Nuova Zelanda – con una lettera rivolta al sovrano in cui si chiedono scuse formali per gli effetti della colonizzazione britannica.
Ma soprattutto di impegnarsi immediatamente a discutere di risarcimenti per "l'oppressione dei nostri popoli, il saccheggio delle nostre risorse, la denigrazione della nostra cultura e di ridistribuire la ricchezza su cui si basa la corona ai popoli a cui è stata rubata".
Se Carlo già quando era erede al trono aveva condannato senza mezzi termini la "terribile atrocità" della schiavitù in quanto tragica componente dell'espansionismo europeo nelle Americhe e da sovrano ha di recente annunciato l'apertura degli archivi reali per permettere agli storici di indagare sui trascorsi più vergognosi della monarchia arricchitasi in altre epoche coi proventi della tratta atlantica di essere umani, non si è comunque mai spinto fino alle scuse pubbliche. Queste infatti esporrebbero la corona e la stessa Gran Bretagna a uno scenario di battaglie legali e richieste di riparazioni molto onerose.
Allo stesso tempo nei Caraibi aumentano le pulsioni repubblicane. E proprio l'incoronazione, a detta della ministra giamaicana per le Questioni costituzionali Marlene Malahoo Forte, ha accelerato i piani di Kingston per tagliare i legami con la monarchia, tramite un referendum che potrebbe tenersi "già nel 2024". "Molti giamaicani avevano un caloroso affetto per la regina Elisabetta II – ha aggiunto – ma non si identificano con re Carlo".
Dopo che Barbados ha formalizzato nel 2021 l'addio alla corona altri Stati si preparano a farlo: oltre alla Giamaica ci sono Antigua e Barbuda e anche il Belize. Un segnale in questo senso era arrivato l'anno scorso col mezzo fiasco della visita nei Caraibi dell'erede al trono William con la consorte Kate durante il Giubileo di Platino per i 70 anni sul trono di Elisabetta.
Mentre il dibattito sul cambiare la forma di governo e recidere il vincolo istituzionale residuo con l'ex madrepatria riprende quota anche in altri reami del Commonwealth, come il Canada e l'Australia, che ha di recente deciso di spodestare l'effigie del sovrano dalle nuove banconote da cinque sterline preferendo una raffigurazione in onore della cultura aborigena.