laR+ LA GUERRA IN UCRAINA

‘Un mostro ideologico’ e una pace lontana

Le storiche relazioni del Cremlino con l’Ucraina limitano le vie d’uscita. Lo storico Andrea Graziosi: ‘Più probabile un lungo armistizio’

Il famoso dipinto di Il’ja Glazunov (1999) illustra lo shock della fine dell’Urss e le pulsioni antioccidentali
(IG)
24 febbraio 2023
|

«Un mostro ideologico cresciuto all’ombra della nostra indifferenza», impantanato in una guerra che può difficilmente vincere, e non può perdere. Il quadro delineato da Andrea Graziosi ne ‘L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia’ (Laterza) è tutt’altro che rassicurante, ma offre l’occasione per andare al fondo di quei complessi legami che avviluppano Mosca e Kiev. Ne parliamo con Graziosi, professore di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II, eminente studioso di genocidi e delle relazioni col mondo sovietico e post-sovietico.

Per certi versi, questa appare una guerra‘semplice’: ci sono un invasore e un invaso. D’altro canto, lei scrive che "sarebbe sbagliato vedere il conflitto russo-ucraino come un conflitto tra due ‘classici’ nazionalismi europei di tipo etnolinguistico". In che senso?

Nel senso che Vladimir Putin non aspira a costruire una Russia su base etnica, bensì un Russkij Mir, un mondo russo: la Russia non come nazione, ma appunto come mondo, un mondo imperniato su Mosca del quale fanno parte diversi popoli, come dimostra anche la composizione multietnica dell’entourage di Putin. Stalin diceva che la Russia è un continente: visione che in Putin si contrappone all’Europa, e che porta a concepire gli ucraini e i bielorussi come ‘declinazioni’, sia pure non paritetiche, dei russi. A sua volta, anche in Ucraina dopo la fine dell’Urss si è affermato col tempo un senso della nazione che si definisce al di là del dato etnico, abbracciando ad esempio anche le minoranze tatara ed ebraica. Non manca una componente di nazionalismo etnoculturale ed etnolinguistico – più simile a quello affermatosi nei Paesi baltici – ma già a partire dalla concessione dello ‘ius soli’ a tutte le minoranze nella Costituzione del 1991, vediamo che essa non è quella preponderante. Sarebbe pertanto scorretto leggere questo conflitto come quelli che si verificarono, ad esempio, nei Balcani tra croati e serbi. Lo scontro è piuttosto tra il tentativo di imporre un mondo incentrato su Mosca e quello di affrancarvisi muovendo verso l’Europa.

In che misura il trauma del crollo dell’Urss ha costituito un imprinting per le attuali élite russe?

Il trauma fu sentito piuttosto in un secondo tempo. Subito dopo il 1991 la Russia celebrava come festa nazionale il giorno dell’indipendenza dall’Unione Sovietica, a sottolineare il rifiuto di quel passato. Una posizione ben diversa da quella di Putin, che all’inizio degli anni Duemila indicava già la fine dell’Urss come la più grande catastrofe geopolitica del Ventesimo secolo. Nel mezzo ci sono le difficoltà economiche degli anni Novanta – pur attenuate, rispetto a quanto visto in Ucraina o altrove, dalla disponibilità di materie prime – e l’emergere di un generale senso di umiliazione. Si è dunque finiti a rimpiangere l’Unione Sovietica come incarnazione della Russia eterna, un po’ come l’impero zarista.

È legittimo parlare di ‘fascismo putiniano’?

Il concetto di fascismo è complesso e pieno di sfumature. Un’analogia si può vedere nella costruzione ventennale di un regime dittatoriale, imperniato sulla figura di Putin e sulla repressione dell’opposizione, con elezioni sempre più pilotate, un ricorso continuo alla violenza politica e deliri d’onnipotenza di tipo imperiale. In questo senso, sì, possiamo tutto sommato parlare di fascismo. Attenzione, però: Putin non persegue l’etnonazionalismo che invece si incarnava nell’esaltazione mussoliniana dell’italianità.

D’altro canto, Putin ha presentato l’invasione dell’Ucraina come un’operazione di ‘denazificazione’. Come dobbiamo interpretare questa formula? C’è un legame ideologico con la decosacchizzazione e la dekulakizzazione, i massacri di cosacchi e famiglie contadine organizzati dal regime sovietico tra il 1919 e il 1930?

Il legame c’è senz’altro, ma è interessante notare come il concetto di denazificazione si sia evoluto nel tempo: all’inizio del conflitto, credo soprattutto per motivi di propaganda all’estero, il Cremlino utilizzava il pretesto del nazismo attribuendo questa etichetta solo alle forze al potere in Ucraina, ‘rapitrici’ di un popolo sostanzialmente filorusso; si credeva che una volta liquidati i vertici, il popolo si sarebbe docilmente ‘riunito’ a Mosca. In questo senso in effetti si pensava di replicare un po’ quanto fatto contro cosacchi e kulaki, cioè liquidarne l’élite e soggiogarne la "massa". Ma con l’impantanarsi delle operazioni di fronte a una diffusa resistenza nazionale, si è poi arrivati a identificare come nazista la grande maggioranza dei cittadini ucraini, allargando il compasso della denazificazione a ipotesi di ‘rieducazione’ di massa. In una terza fase si è inasprito ulteriormente quell’approccio: quando si è iniziato a sparare a tappeto sulle centrali elettriche e le infrastrutture civili per portare allo stremo un popolo intero, è divenuto chiaro che ormai lo si riteneva meritevole di una punizione esemplare, di crimini di guerra come unica forma di denazificazione contemplata. Infine si è passati a identificare come nazisti l’intera Europa e l’Occidente, utilizzando questa carta a uso prevalentemente interno per giustificare il disastro militare. Il tutto, paradossalmente, affidandosi sul campo a formazioni palesemente naziste come il Gruppo Wagner.

Questa progressiva disumanizzazione del popolo ucraino corrisponde a un piano genocidario del Cremlino?

La definizione di genocidio è molto complessa, perché è elastica come categoria storica ma molto rigida come categoria giuridica. Se però prendiamo la definizione legale di genocidio delle Nazioni Unite ("atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso", ndr), vediamo che basterebbero la deportazione e la rieducazione in scuole russe di decine di migliaia di bambini ucraini per applicare questa categoria. Anche massacri come Bucha e Mariupol fanno ipotizzare questo reato, lo stesso riscontrato a Srebrenica. Da un punto di vista storico, a suffragare l’ipotesi di genocidio è soprattutto la negazione del diritto di un popolo a essere tale: il fatto di negare che gli ucraini possano o sappiano essere tali e la pretesa di subordinarli a sé, come se i francesi andassero a dire agli italiani che sono francesi senza saperlo, costringendoli con la forza a diventarlo.

Un’invasione di questo tipo finisce inevitabilmente per rimettere in discussione il sistema internazionale. La propaganda filoputiniana giustifica la guerra in ragione di un presunto ‘accerchiamento’ da parte della Nato; altri notano invece che è stato semmai il ‘retrenchment’, la ritirata degli Usa dal loro ruolo di poliziotto del mondo, ad aprire varchi per un atto di questo tipo. Chi ha ragione?

Credo che a essere indiscutibile sia piuttosto la seconda ipotesi. Putin coltivava fin dall’inizio l’idea di un mondo russo, ma ha iniziato a praticarla dopo la crisi del 2007-8, soprattutto quando l’amministrazione di Barack Obama ha spostato la sua attenzione dall’Europa alla Cina. Più in generale, la crescita di Paesi come Cina e India ha spinto molti a riallinearsi e tentare nuove strade: vale per Putin come per il Regno Unito della Brexit e il ‘make America great again’ di Trump. In tutti i casi siamo di fronte a Paesi già dominanti, e in parte ancora tali, in crisi – crisi naturalmente molto diverse per profondità e velenosità dei loro frutti – che tentano sbocchi inediti per ritrovare la loro grandezza, spesso cadendo vittime dei propri deliri d’onnipotenza: proprio Putin ha mostrato un grande irrealismo nelle sue mosse in Ucraina, nell’illusione di potere ritornare al tavolo delle grandi potenze.

Ma Putin teme la Nato o piuttosto l’Unione europea?

Mi pare lapalissiano che Putin tema anzitutto la scelta europea dell’Ucraina, il cui ingresso nella Nato non è che un effetto collaterale. Convinto com’era di avere il Paese in pugno ai tempi della presidenza filorussa di Viktor Janukovych, con la sua cacciata nel 2014 – proprio mentre il presidente russo celebrava le Olimpiadi a Sochi – ha vissuto una sorta di shock: un Paese che gli volta le spalle in favore dell’Occidente degenerato.

Cosa spinge gli ucraini verso l’Europa?

Sicuramente i rapporti difficilissimi tra Russia e Ucraina nel corso della storia – si pensi all’Holodomor, lo ‘sterminio per fame’ ai tempi di Stalin – giocano un ruolo molto importante. Porrei tuttavia l’accento su qualcosa di più vicino e semplice: dopo il crollo dell’Urss gli ucraini sono stati tra i pochi a emigrare in grande numero prima verso la Russia e poi verso l’Europa. Hanno dunque potuto confrontare quei due mondi, e hanno scelto quello che gli piaceva di più. Basta parlare con loro per capirlo: rifiutano il mondo russo, donde quel che abbiamo visto accadere.

Riferendosi all’Ucraina, Putin ha recitato al presidente francese Emmanuel Macron un agghiacciante stornello da caserma: "Che ti piaccia o no / devi sopportarlo mia bella". Con un leader nucleare che si compiace di rivendicare le sue azioni in guisa di stupro, si potrà arrivare alla pace?

Temo di no. L’ideologia putiniana è un mostro ideologico cresciuto all’ombra della nostra indifferenza, di una pericolosità che non vedevamo in Europa dai tempi di Adolf Hitler. Come tutte le ideologie più pericolose, è un ibrido aggressivo: in questo caso tra euroasiatismo, nazionalismo di vario tipo e ortodossia, ma c’è anche una componente gangsteristica, criminale, che ritroviamo in certe espressioni, come in alcuni dei comportamenti omicidi dei primi anni della presidenza Putin. Di fronte a un fenomeno del genere, e dopo certe azioni, la pace appare impossibile, anche perché richiederebbe che il vinto riconoscesse un vincitore: oggi Putin non ha vinto ma neppure può perdere, essendo una potenza nucleare. E l’Ucraina certo non ha perso, anzi. In assenza di cambiamenti radicali in Russia, la soluzione più probabile sarà perciò un lungo armistizio, un cessate il fuoco per esaustione reciproca, come quello tra le due Coree. Ma il bisogno di vincere di Putin pare spostare molto in là nel tempo anche questo scenario, visto il prezzo di sangue che Mosca sembra ancora disposta a pagare.