Scontri senza precedenti si sono registrati nei pressi della megafabbrica cinese che produce gli smartphone di Apple. C’entra il coronavirus, ma non solo
I video sono piuttosto impressionanti, anche perché è molto raro che dalla Cina riescano a fuoriuscire documenti del genere: centinaia di operai della fabbrica di prodotti elettronici Foxconn che nella notte tra martedì e mercoledì escono dalle loro baracche, sfondano le barriere di confinamento e si scontrano con la polizia e gli addetti alla sicurezza. Da una parte i manifestanti, con le loro mascherine e qualche oggetto da brandire come arma, dall’altra i poliziotti di Zhengzhou imbragati in tutone bianche che li fanno somigliare al fantasmino Casper, ma con bastoni d’acciaio e scudi antisommossa. Alle immagini – la polizia che mena, i manifestanti che attaccano auto e telecamere di sorveglianza – si aggiunge il sarcasmo della globalizzazione: molti le avranno viste su un iPhone assemblato da quegli stessi operai che ora dimostrano di non poterne più.
C’entra anzitutto la paura del Covid, che già a ottobre, quando all’interno di Foxconn si era sviluppato un focolaio, aveva spinto migliaia di operai a fuggire. Il timore, vivendo segregati e ammassati gli uni accanto agli altri, era anzitutto quello del contagio. Per non rallentare la produzione del nuovo iPhone 14 erano stati reclutati centomila rimpiazzi e rinforzi, che però si sono ritrovati nella stessa situazione, con le stesse paure e la stessa rabbia.
La seconda ragione della protesta sarebbero i soldi: l’azienda non ha versato i bonus promessi pur di mobilitare le nuove leve. Un certo Li ha spiegato al ‘Guardian’ che il contratto prevedeva 3’500 dollari per due mesi di lavoro. Poi ha scoperto che tutti quei soldi non li avrebbe mai visti. "Sono arrivati lavoratori da tutto il Paese, per poi accorgersi di essere stati fregati", ha spiegato. L’altroieri Foxconn si è scusata attribuendo il ritardo nei pagamenti di stipendi e bonus a un errore informatico. Intanto, però, fughe e scontri potrebbero ritardare in tutto il mondo le consegne dei nuovi iPhone, oggetto d’intense brame natalizie un po’ ovunque.
Così le proteste in una singola succursale d’una sola azienda nella Cina centrale potrebbero scuotere anche i nostri placidi alberelli di Natale. D’altronde lo stabilimento Foxconn di Zhengzhou non è una fabbrica come potremmo immaginarcela noi, anche facendo volare la fantasia alle enormi traverse della Fiat a Mirafiori mezzo secolo fa, o ai megacapannoni della Detroit d’antan. Quella cinese è davvero una fabbrica-mondo: conta fino a 300mila lavoratori, come se prendessimo quasi tutti i residenti in Ticino e ce li chiudessimo dentro, dicendo loro che non possono uscire visto che Babbo Natale aspetta.
Per Giada Messetti, giornalista esperta di questioni cinesi e autrice del recente ‘La Cina è già qui’ per Mondadori (la intervistammo su ‘laRegione’ il 25 luglio), non dovrebbe stupirci il fatto che i cinesi s’arrabbino: «Dobbiamo superare lo stereotipo dell’operaio-formica in una Cina ‘fabbrica del mondo’. Da una parte, negli ultimi decenni diritti e retribuzioni sono migliorati, tanto che chi vuole davvero puntare al risparmio delocalizza piuttosto nel Sudest asiatico; dall’altra, i cinesi non mancano di far sentire il loro malcontento quando lo ritengono necessario. A colpire non dovrebbero essere dunque le proteste in sé, quanto piuttosto la loro portata e lo scollamento senza precedenti che esse rivelano tra il governo di Pechino – che continua a perseguire la linea ‘zero Covid’ e tiene ancora un terzo dei cinesi in lockdown, invece di cercare strade per convivere col virus – e il disagio della popolazione». Popolazione che «teme altrettanto il Covid, ma in luoghi come Foxconn si trova costretta a lavorare e vivere fianco a fianco con casi positivi. Pechino sembra non riuscire a trovare una soluzione al paradosso: è come se si fosse rotto un meccanismo d’ascolto da parte del governo che invece aveva funzionato bene negli ultimi decenni».
Messetti nota peraltro che «quelli a Foxconn non sono gli unici segni di esasperazione. Nei giorni scorsi, nello Xinjang, un incendio ha ucciso diverse persone chiuse in un palazzo sotto lockdown. Le manifestazioni di piazza che ne sono seguite, con bandiere cinesi e canti di protesta, sono state importanti».
Da tempo si sapeva che dall’altra parte di quegli schermi luminosi ed eleganti "designed in California, assembled in China" – e non solo di quelli – c’era un sistema poco lontano dai lavori forzati: dei suicidi tra i lavoratori, ad esempio, si parlava già quando il fondatore di Apple Steve Jobs era ancora vivo, tanto che Foxconn dovette installare reti di sicurezza e sistemi di sorveglianza. Nel frattempo le condizioni apparivano progressivamente migliorate, ma a quanto pare i problemi rimangono.
Anche per questo viene da chiedersi cosa ci dicano i fatti di Zhengzhou circa il futuro degli operai cinesi. Se è vero che basta una protesta in mezzo al Paese per far traballare le filiere della globalizzazione, è possibile ipotizzare che una loro ‘lotta di classe’ rovesci i destini politici ed economici cinesi (e magari mondiali)? Messetti frena, invitando a non leggere sempre la Cina con gli occhi degli occidentali: «Quel che possiamo dire finora è solo che è successo qualcosa di importante, qualcosa di inedito. Cosa sia di preciso e quali conseguenze possa avere, lo scopriremo».