Secondo lo storico Mario Del Pero per i Dem è andata meglio del previsto, ma un governo diviso rischia di paralizzare il Paese
Quando le cose vanno come s’aspettavano tutti, pare quasi che non sia successo niente. Perché alla fine già lo sapevamo, che gli americani avrebbero punito i Dem: succede (quasi) sempre così, alle elezioni di metà mandato. Intanto i numeri – col Senato in bilico com’era già e la Camera che si direbbe persa, ma neanche di troppo – potrebbero indurci a pensare che quella registrata martedì sia solo una piccola scossa d’assestamento. A capire se si tratta di una lettura legittima e suffragata dai fatti ci aiuta Mario Del Pero, professore di Storia degli Stati Uniti a SciencesPo, Parigi.
Premesso che i dati sono ancora parziali, il risultato dei Democratici appare molto migliore delle aspettative: potrebbero perdere solo di poco la Camera e in molte elezioni in bilico hanno vinto loro, oltre a ottenere un ottimo risultato anche a elezioni e referendum per i singoli Stati. Credo che su questo buon esito abbiano pesato elementi che risultavano importanti quest’estate, mentre poi sembravano ridimensionati all’approssimarsi del voto: in primis la questione dell’aborto, che ha spinto a votare molti elettori democratici i quali altrimenti si sarebbero astenuti (vedi accanto, ndr).
Si direbbe che per la mobilitazione siano stati efficaci anche gli appelli a difendere una democrazia in pericolo – tema poi brandito dal presidente Joe Biden –, oltre alla radicalità e talora l’impresentabilità di alcuni candidati repubblicani, soprattutto quelli sostenuti da Donald Trump. Infine c’è un dato strutturale: la polarizzazione traina le persone al voto ‘in negativo’, per paura della controparte e per contrastarla più che a sostegno della propria, congelando due blocchi che alle urne sortiscono questo risultato così spaccato.
Trump è intervenuto attivamente in molte primarie, per finanziare e appoggiare certi candidati. Va detto d’altronde che la gran parte dei candidati repubblicani quell’endorsement l’ha cercato, perché l’ex presidente sposta ancora tanti voti, tanto che alla Camera entreranno diversi personaggi a lui vicini. Eppure nelle elezioni più importanti, come quelle per il governo di singoli Stati e per il Senato federale, i preferiti di Trump sono tendenzialmente andati male. In Georgia addirittura, tra candidati repubblicani per cariche diverse ma con lo stesso collegio elettorale, quello ‘non trumpiano’ è andato molto meglio di quello ‘trumpiano’. Trump, insomma, è in certa misura lo sconfitto di queste elezioni, come mostra la sua immediata polemica col governatore della Florida Ron DeSantis (vedi accanto, ndr). Tuttavia resta un candidato formidabile, che all’interno del partito repubblicano può esercitare una forza distruttrice che a nessuno conviene scatenare. Immaginiamoci cosa succederebbe se si ricandidasse e perdesse di misura le primarie presidenziali: sarebbe capace di tutto. Questo ci mostra come Trump possa essere un problema anche per gli stessi repubblicani.
Si dice sempre che le elezioni di metà mandato sono anche un referendum sul presidente (in questo caso, l’anziano e afono Joe Biden). È stato così anche stavolta?
Forse meno del solito: il tasso di fiducia dei consumatori e quello di approvazione dell’operato del Presidente – i due indicatori che molti studiosi utilizzano per prevedere l’esito delle elezioni di midterm – sono a livelli molto bassi, eppure la sconfitta democratica non è stata così netta. Allo stesso tempo la popolarità di Biden in questi mesi è sempre stata inferiore a quella del suo partito, tanto che molti candidati lo hanno tenuto lontano dalla loro campagna. Per cui il risultato del voto appare spiegabile più nonostante che grazie a Biden.
Un vecchio adagio dice che un Congresso in mano al partito opposto a quello del presidente permette di concertare un’attività governativa e legislativa più pragmatica, e che – come ha scritto il neopadroncino di Twitter Elon Musk – "la condivisione del potere riduce gli eccessi peggiori di entrambi i partiti". Siamo sicuri?
No, è storicamente falso. Soprattutto in fasi di forte polarizzazione politica. Certo, ci sono stati alcuni periodi produttivi di divisione tra esecutivo e legislativo, ma resta più una leggenda che una regola, una leggenda tendenzialmente sostenuta dai più centristi – che sognano un accordo bipartisan all’insegna della moderazione e del compromesso –, o da personaggi come Musk, il quale ambisce a presentarsi come grande pacificatore nazionale. Se andiamo a vedere gli ultimi bienni di questo tipo – Obama post-2010 e Trump post-2018 – vediamo che sono caratterizzati da bassissima produttività legislativa. Se, come sembra, ci sarà una divisione, nei prossimi due anni è presumibile che vedremo una sostanziale assenza di nuove leggi, un governo del Presidente per via esecutiva o burocratico-amministrativa, e un continuo ricorso al Congresso come ‘trincea’ per una guerra politica permanente e come ‘teatro’ nel quale posizionarsi in previsione delle prossime Presidenziali. Insomma: inefficienza legislativa e cattivo governo, o almeno governo in cui l’uso e abuso degli strumenti presidenziali possono spingersi ben oltre il dettame costituzionale.