Il 28 ottobre 1922 è il giorno associato alla marcia su Roma, evento-simbolo dell’inizio del Ventennio che affascinò anche alcuni ticinesi
28 ottobre 1922, la marcia su Roma, il giorno che ricorda la nascita del fascismo. In realtà, come precisa Emilio Gentile, quel giorno a Roma non successe nulla di speciale e non vi fu nessuna marcia. «Quando ci riferiamo al 28 ottobre – ci spiega ancora il massimo storico vivente di quell’infausto periodo nella storia italiana– non facciamo altro che seguire il calendario fascista nel quale il 29 inaugura una nuova era». Le squadracce di miliziani del fascio, che già avevano seminato violenza e morte in numerose città, in effetti erano state fermate dal generale Pugliese a una settantina di chilometri dalla capitale. Sfileranno a Roma guidate dal quadrumvirato (Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Michele Bianchi ed Emilio De Bono) solo il 31, quando Vittorio Emanuele III aveva già affidato a Benito Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo.
L’Italia era da ben due anni in preda alla violenza estrema delle camicie nere il cui nerbo era costituito dagli arditi, i veterani della Grande Guerra. Aldo Cazzullo, autore di ‘Mussolini, il capobanda’ (Mondadori 2022), stila la lunghissima lista delle vittime della ferocia fascista prima della presa del potere: "Non vi fu nulla di romantico nella ribellione, le camicie nere terrorizzavano le città con canti, olio di ricino, tirapugni, manganelli, fucili, bombe a mano, mitragliatrici montate sui camion". Squadracce dal nome evocativo – Satana, Indomita, Me ne frego – che uccisero 172 socialisti nel solo 1920. Scene orripilanti, come quella che vide protagonista il deputato friulano Marco Ciriani, obbligato a bere un litro di olio di ricino e a defecare sul testo dei suoi discorsi, o quelle che portarono alla morte di un altro parlamentare socialista, Giuseppe Vaglio, ucciso in un comizio. Giornalisti pestati, presi a revolverate, redazioni di giornali incendiate come quella dell’Avanti, di cui il Duce era stato direttore cinque anni prima. Nel 1921 i fascisti avevano già occupato innumerevoli città, come Treviso, assaltata con bombe e mitragliatrici, Bologna o le socialiste Bari, Ancona, Terni, Trento e Ferrara sulla quale marciò Italo Balbo, aviatore, futuro governatore della Libia, fascista della prima ora abbattuto per sbaglio nel 1940 dalla contraerea italiana.
«Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare lo stato d’assedio verosimilmente perché – è l’ipotesi che ci avanza Emilio Gentile – sia il presidente del Consiglio dimissionario Facta, sia i suoi predecessori, Giolitti, Orlando, Salandra e Nitti, temevano una guerra civile». La marcia su Roma fu il frutto avvelenato di tre anni di violenze che spiegano la decisione del Re, dopo non poche esitazioni, di affidare al 39enne Mussolini le redini del governo. Salvo i repubblicani, i socialisti e i comunisti, le altre formazioni politiche (liberali, popolari, nazionalisti) appoggiarono il nuovo esecutivo sperando così di riassorbire il fascismo nello Stato costituzionale. Pia illusione…
Per il professor Gentile pochi furono quelli che intuirono dall’inizio il pericolo fascista: «Si possono contare sulle dita di una mezza mano (Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, Giovanni Amendola, antifascista liberale morto per i postumi di un pestaggio squadrista, e lo storico Luigi Salvatorelli) quelli che avevano capito ben prima della presa del potere da parte di Mussolini cosa potesse significare un partito armato con mentalità bellica che non cessava di proclamare di voler abbattere lo Stato liberale». Antifascisti come Benedetto Croce o Alcide De Gasperi non brillarono per lucidità politica… Piero Gobetti (antifascista liberale, pestato a sangue dai fascisti e morto a soli 24 anni) nel ’22 definisce il fascismo "una parentesi studentesca". L’Ordine Nuovo, il giornale di Antonio Gramsci, scrive il 27 ottobre del ’22 che ci sono ormai "segni evidenti che il fascismo è in via di disgregazione". Il socialista Gaetano Salvemini auspica addirittura nel maggio del 1923 che "Mussolini rimanga ancora un po’".
Furono poi molti gli ammiratori ammaliati dal fascismo e dal Duce. Nel mondo della cultura in prima fila troviamo naturalmente Giovanni Gentile, filosofo e teorico del fascismo, ucciso dai partigiani a Firenze nel ’44, ma anche scrittori come Curzio Malaparte, Luigi Pirandello e il giovane Giuseppe Ungaretti («fu lo stesso Mussolini – ci ricorda il professor Gentile – a scrivere la prefazione della sua prima raccolta di poesie, ‘Il porto sepolto’»), i futuristi come Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà e Mario Sironi (fermato e graziato dal partigiano e scrittore della nostra infanzia Gianni Rodari), per i quali l’uomo fascista incarnava l’esaltazione della guerra e della velocità, il giornalista Luigi Barzini e il grande musicista e compositore Giacomo Puccini. E gli italiani? «Aderirono in molti perché erano stanchi – spiega Emilio Gentile, che al fascismo ha consacrato una quarantina di saggi. Ricordiamoci che l’Italia entra in guerra in Libia nel 1912, nel 1914 ci sono i moti rivoluzionari, nel 1915 tre anni e mezzo di Grande Guerra, poi il biennio rosso (le lotte operaie e contadine del 1919-20, ndr), due anni di guerra civile fascista. Il popolo non è né vigliacco, né opportunista: è assente. E lo è anche la classe operaia». Non per nulla nel 1931 Mussolini disse a un intimo confidente che "se ci avessero messo tra le gambe un solo sciopero, avremmo fallito". Lo storico Renzo De Felice, di cui Emilio Gentile è stato allievo, sosteneva che almeno fino al ’36 vi fu una grande adesione popolare al fascio.
Quello fascista fu uno dei tre regimi totalitari del XX secolo. Il termine stesso ‘totalitarismo’ fu coniato da Luigi Sturzo e Giovanni Amendola. Il fascismo fu spietato con gli oppositori (tra i tanti assassinati Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo e Nello Rosselli, Don Giovanni Minzoni, ma aggiungiamo pure anche Antonio Gramsci lasciato marcire in carcere), ed esaltò la violenza ("la guerra è spaventosa e tremenda e terribile e distruttrice e per questo dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi", proclamò lo scrittore Giovanni Papini che firmerà lo sciagurato manifesto della razza). Razzista sin dall’inizio, prese di mira gli ebrei ancor prima delle deportazioni naziste scattate dopo la firma dell’armistizio da parte di Badoglio nel 1943. Da sfatare l’idea che le leggi razziali furono blande al confronto di quelle tedesche. Furono spietate: le disposizioni entrate in vigore il 5 settembre del 1938 prevedono ad esempio che tutti i bimbi ebrei debbano lasciare le scuole pubbliche, vietano i matrimoni misti, proclamano l’espulsione degli ebrei stranieri. Molti ebrei si suicidano. Quando si toglie la vita gettandosi dalla torre del Duomo di Modena l’editore Angelo Formiggini, il segretario del Partito Nazionale Fascista Achille Starace commenta "è proprio morto come un ebreo. Si è buttato dalla torre per risparmiare un colpo di pistola". La censura è ferrea, le cattive notizie abolite nei giornali, ai professori universitari viene imposto il giuramento di fedeltà.
Tra i tanti miti da sfatare (bonifiche, autostrade ecc…) anche quello degli "italiani bravi soldati". L’Italia fascista si lancia in diverse avventure belliche (dichiarazione di guerra contro Grecia, Jugoslavia; Francia e Gran Bretagna nel giugno del ’40; Usa un anno più tardi dopo Pearl Harbor e naturalmente con la disastrosa campagna di Russia). Le atrocità italiane furono spesso inenarrabili: agli ordini del generale Pietro Badoglio e del suo vice Rodolfo Graziani vengono giustiziati 12mila resistenti in Libia, dove si bombarda con l’iprite e si procede a impiccagioni di massa. In Etiopia si scrive una delle pagine più terribili della storia coloniale, migliaia di persone bombardate, bruciate, massacrate con mitragliatrici pesanti. Il fascismo, che ebbe il suo sussulto finale con i 600 giorni della Repubblica di Salò, morirà definitivamente con il Duce nell’aprile del ’45. Rimane nei suoi confronti una certa benevolenza, si relativizzano spesso gli orrori. Nel dopoguerra «si è creata una sorta di omertà complice» perché, spiega ancora il Professor Gentile, «la maggioranza della classe dirigente che proveniva dal partito fascista o dalle organizzazioni giovanili fasciste ha sostenuto la tesi farsesca che in fondo loro non erano mai stati convinti fascisti e che comunque il fascismo era meno serio del comunismo e del nazismo».
«In Ticino il fascismo incontra diverse simpatie» spiega lo storico Orazio Martinetti, che aggiunge: «In particolare dopo le leggi del ’25 e i patti lateranensi del ’29». Mussolini è visto come l’uomo che riporta finalmente l’ordine in Italia dopo il biennio rosso e costituisce un baluardo contro il bolscevismo. I sostenitori si annidano soprattutto nel Partito Liberale Radicale e nel Partito Conservatore. Chiaramente ostili i socialisti di Guglielmo Canevascini. Tra i seguaci nostrani del Duce – ci spiega lo storico – primeggiano i nomi di pubblicisti come Piero Scanziani (firma del settimanale ‘Il fascista svizzero’), Emilio Colombi, Nino Rezzonico ("il Duce di Porza"), avvocati come Alberto Rossi, Alfonso Riva e Fausto Pedrotta o economisti come Basilio Biucchi. Il fascismo comunque non sarebbe potuto attecchire in un Paese dall’ordinamento federalistico come la Svizzera, linguisticamente e culturalmente non omogeneo, fondato sulla democrazia semi-diretta e sulla neutralità. La ‘marcia su Bellinzona’ del 1925 (alcuni esaltati sobillati da Rossi e Rezzonico, poi fronteggiati dai socialisti di Canevascini) fu un tentativo grottesco di imitare gli avvenimenti italiani e segnò, secondo Martinetti «la prematura morte del fascismo ticinese che perse mordente» e che alle elezioni del 1935 non superò l’1,5% dei consensi.