Un decreto del leader supremo degli islamisti riporta l’Afghanistan indietro di oltre vent’anni
Le afghane riprecipitano nel buio. Con un balzo indietro di oltre vent’anni, i "nuovi" talebani che da nove mesi sono tornati a comandare hanno imposto per decreto a tutte le donne, quando non siano in casa propria, il burqa, il vessillo dell’identità femminile nascosta, se non annullata.
"Le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane devono coprirsi il volto, tranne gli occhi, come indicato dalla Sharia, per evitare di provocare quando incontrano uomini che non siano mahram", cioè parenti stretti, recita il decreto firmato dal leader supremo dei talebani, Haibatullah Akhunzada. Esse, prosegue, "devono indossare un chadori", cioè quel tipo di burqa che copre l’intera figura, dalla testa ai piedi, lasciando solo intravvedere gli occhi dietro a una feritoia velata da una griglia, "in quanto è tradizionale e rispettoso".
A chiarire dettagli e corollari del decreto ci ha pensato Khalid Hanafi, ministro ad interim per la Propagazione della virtù e la Prevenzione del vizio, che in una conferenza stampa ha spiegato che a rispondere di eventuali violazioni saranno anche il padre, il marito o il parente maschio più vicino alla donna: saranno passibili di ammonimento alla prima infrazione, di convocazione da parte del ministero alla seconda, di tre anni di carcere e licenziamento al terzo. "Vogliamo che le nostre sorelle vivano in dignità e sicurezza", ha concluso beffardamente Hanif.
Ancora largamente diffuso nel conservatore Afghanistan rurale, il burqa era quasi sparito in alcuni quartieri cittadini, soprattutto fra le ragazze più giovani, nate o cresciute dopo la fine del primo regime talebano, fra il 1996 e il 2001, che continuavano a coprirsi i capelli con un foulard lasciando però scoperto il volto: donne abituate a lavorare, ad andare a scuola, a spostarsi anche senza mariti o padri. E anche a far sentire la propria voce, apertamente, in pubblico: spazi, questi ultimi, ormai quasi completamente chiusi, perché ad ogni occasione di protesta - peraltro sempre più sporadiche e limitate nei numeri -, le partecipanti vengono disperse con la violenza quando non vengono fermate per poi, spesso, sparire nel nulla.
Come se non bastasse il burqa, nel decreto di Akhunzada si stabilisce che se una donna non ha cose di vitale importanza da fare all’esterno, "è meglio che resti in casa". Del resto, è in quella direzione che convergono e spingono le varie "linee guida" emanate in questi nove mesi dai talebani un po’ alla volta, forse per rendere meno macroscopico il contrasto con le rassicurazioni presentate alla comunità internazionale e alle organizzazioni per i diritti umani quando hanno ripreso il potere lo scorso agosto. I talebani avevano già impedito alle donne di viaggiare fuori dalla propria città o regione senza la compagnia di un parente maschio, di svolgere molti mestieri, persino di essere curate in ospedale senza la presenza di un accompagnatore. A Kabul, inoltre, alle donne è consentito passeggiare nel parco, ma a giorni alternati con gli uomini.
In marzo le residue speranze sono state gelate dalla doccia fredda della scuola superiore per le ragazze, prima autorizzata e poi negata nel primo giorno in classe: tutte a casa in attesa di nuove direttive che garantissero la loro "sicurezza" in accordo con la legge islamica. Direttive mai emesse, che hanno lasciato le scuole femminili di fatto chiuse.
Del resto, "i principi dell’Islam e l’ideologia islamica sono più importanti di qualunque altra cosa", ha riassunto il ministro Hanafi, tassello di un governo integralista che non riesce a tirare l’Afghanistan fuori dalla sua pressoché totale dipendenza dagli aiuti umanitari. Il Paese, isolato politicamente, abbandonato da molte organizzazioni umanitarie e stretto nella morsa delle sanzioni imposte da Stati Uniti e alleati, ha ampie fasce di popolazione sull’orlo della fame.