il reportage

A Chernobyl tra radiazioni, turisti, volpi e Frank Sinatra

Aumentano i tour per chi vuole entrare nella “zona di alienazione” (grande quanto il Ticino) e vedere gli effetti del disastro del 26 aprile di 35 anni fa

La giostra del luna park mai inaugurato a Pripyat (Keystone)
26 aprile 2021
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Chernobyl (Ucraina) - Ti infilano in un pulmino, ti dicono di non lasciare scoperta nessuna parte del corpo. E se paghi un extra ti mettono in mano quello che sembra un cellulare di vecchia generazione. Ma quando squilla non è una telefonata, sono radiazioni: è un contatore Geiger. Servirà per capire quanto preoccuparsi in giro per Chernobyl.

Il primo ad accogliermi, in modo del tutto inatteso, non è un sovietico, ma un americano dei tempi della Guerra Fredda: Frank Sinatra, la cui voce esce dall’altoparlante del chiosco dei souvenir che accoglie la manciata di turisti - che ufficialmente non possono chiamarsi turisti - scesi dai pullman in arrivo da Kiev. Canta "That’s Life", il vecchio Frank. "Così è la vita". E non è la beffarda sigla di benvenuto scelta con dark humour per i patiti del dark tourism, ma solo un caso.


La scritta Chernobyl all’ingresso della città (R. Scarcella)

Pochi metri più avanti, c’è un cordone di militari e un cartello che dice "vietato fotografare" e una sbarra. Oltre quella sbarra c’è la "zona di alienazione". Un nome che mette soggezione, che sa di Unione Sovietica e di videogiochi claustrofobici. Lì inizia ufficialmente l’area di Chernobyl: 2’600 chilometri quadrati sotto stretto controllo militare, una superficie di poco inferiore a quella del Canton Ticino.

Sono le 10 e15 del mattino di una splendida giornata primaverile che sembra già estate. E c’è la prima sensazione strana, con relativa associazione che altrove non faresti: ma questo calore è il sole o è Chernobyl?


Il chiosco che vende gadget all’ingresso della zona a rischio (Keystone)

Controllo passaporti

Mentre i primi arrivati si mettono in fila per il controllo passaporti, arrivano altri pullman. Non strapieni, come pare accadesse prima della pandemia: è il 2019 e deve ancora uscire la serie tv che rimette i riflettori là dove l’Unione Sovietica fece di tutto per toglierli. Le compagnie accreditate per Chernobyl già all’epoca erano più di venti. Nessuna di queste, però, aveva il pulmino pieno.

Tra le tante regole da seguire una volta superato il controllo ce n’è una che mostra tutta l’ipocrisia che ammanta questo business: nella "zona di alienazione" non esistono turisti, ma solo visitatori. Lo ripetono tre volte. Per essere sicuri che tutti sentano. Con me viaggiano una giovane coppia di Brescia, una meno giovane della Florida e tre entusiasti amici georgiani. A scanso di equivoci, la nostra guida, Igor scandisce in russo e in inglese la frase: "Usare la parola turista qui dentro portare all’espulsione".


La piscina abbandonata (R. Scarcella)

Regole da aggirare

Le altre regole sono: non fumare, non bere né mangiare all’aria aperta, non sedersi per terra, non toccare nulla (cosa che si rivelerà impossibile passando in mezzo agli alberi), non entrare con bici o moto, non portare via oggetti, non entrare negli edifici (regola aggirata da tutti), indossare scarpe chiuse, pantaloni senza buchi e maglie a maniche lunghe. La prima domanda a Igor ovviamente è: a cosa servono le maniche lunghe se poi non c’è l’obbligo di indossare una maschera protettiva, né di mettere un cappello o i guanti? La risposta: "Le regole sono regole. Qui le fanno i militari, quindi meglio non discutere. Se vuoi visitare Chernobyl è così".

Volevano in pochi quando, nel 1999, fu organizzato il primo tour ufficiale. Ora sono sempre di più e arrivano da tutto il mondo. La prima impennata è del 2017, poco dopo l’installazione del nuovo e più sicuro sarcofago a protezione del reattore 4 - quello esploso la notte del 26 aprile 1986. Fino al 2016 i visitatori erano circa 10 mila, quasi tutti con passaporti di Paesi dell’ex Urss. Nel 2018 erano 70 mila; sette su dieci arrivati dall’estero. Nel 2019 saranno 120mila. Nei primi due mesi del 2020, prima del Covid, i turisti erano già raddoppiati rispetto all’anno prima.

Di pari passo aumenta anche il numero di persone che sceglie opzioni più avventurose della classica visita mordi e fuggi in giornata, con pacchetti che includono soggiorni da una a sette notti, con costi dai 200 euro a salire. Il prezzo di una sola giornata si aggira tra i 60 e i 150 euro a seconda dell’operatore, del giorno e dei servizi: c’è chi include il pranzo, chi le maschere protettive, chi addirittura una sorta di viaggio del tempo con tanto di mezzi di trasporto e altri dettagli in perfetto stile sovietico.


Yevgeny Markevich, 85 anni, è uno degli abitanti abusivi di Chernobyl (Keystone)

Gli abitanti della città che non esiste

Una volta superato il secondo checkpoint, all’altezza della città di Chernobyl, il contatore Geiger, che fino a quel momento segnava le stesse radiazioni rilevate a Kiev (0.15 millisievert), inizia a salire. A Chernobyl e nei suoi dintorni vivono quasi 4mila persone: circa 2’600 sono militari o civili ancora impegnati in attività legate alla centrale. Per quanto possa sembrare assurdo, l’ultimo reattore ha continuato a funzionare sino al 2000 e ancora oggi ci sono persone addette alla manutenzione dei reattori sopravvissuti all’esplosione. Lavorano su turni di 15 giorni, e nelle due settimane di riposo devono stare ad almeno 60 chilometri da Chernobyl. Gli altri 1’000 sono ex abitanti della zona che sono tornati perché, semplicemente, era casa loro. Durante i primi anni il governo ucraino ha cercato di mandarli via, e lì non potrebbero stare, ma ormai c’è un tacito accordo per cui chi vuole tornare lo fa a suo rischio e pericolo. Di solito sono anziani - perlopiù malati o senza famiglia - che nel giardino di casa coltivano il cibo che poi mangiano. A Chernobyl c’è anche un albergo-trattoria che serve pranzi spartani (zuppa di patate e carote, pane, carne di maiale e succo di frutta) ed è l’ultimo avamposto di civiltà assieme a un emporio che non ha quasi niente, ma vende un po’ di tutto: vodka, cioccolata, preservativi, cartoline.

Oltre c’è la natura che ha invaso le case della gente evacuata negli ultimi giorni di aprile del 1986 e i beep dei contatori Geiger i cui numeri continuano a salire vertiginosamente: prima 1, poi 2-3-6 e più. È un’altalena, che oscilla a seconda dell’avvicinarsi a una pianta, al terreno e - soprattutto - agli oggetti di metallo abbandonati. Oltre i 3 millisiviert il suono del contatore si fa sempre più acuto, i beep sempre più ravvicinati. Quello sarebbe il limite oltre cui non si dovrebbe andare. Sarebbe, appunto.


La volpe ribattezzata Simon davanti al reattore 4 (R. Scarcella)

Il reattore 4

Dopo un lungo curvone, appare il Reattore 4. A bordo strada c’è una volpe in cerca di cibo che si fa avvicinare. La si vede talmente spesso in giro che ha perfino un nome: Simon. Sono spariti invece i cavalli che avevano ripopolato la zona. Ma la colpa è dei bracconieri, non delle radiazioni. Man mano che ci si avvicina al Reattore 4 le radiazioni calano ("L’area è stata bonificata per procedere con i lavori del nuovo sarcofago", spiega Igor). Tuttavia è vietato sostare a meno di trecento metri dal reattore, e su tre dei quattro lati è vietato fare fotografie ravvicinate.


I contatori Geiger dati in dotazione ai visitatori (Keystone)

La tappa più sconvolgente é Pripyat, la città nata nel 1970 per dare un luogo in cui vivere ai lavoratori della centrale, oggi un monumento a cielo aperto degli effetti del disastro nucleare. Le case, a rischio crollo, sono off-limits. Igor ci porta però nella scuola, all’ex porto fluviale, nella piscina, nell’ospedale e nella Casa del Popolo, dove tutto è rimasto com’era, cristallizzato, con cartelli e manifesti inneggianti ai leader sovietici ingialliti e adagiati contro il muro. Erano già pronti per le celebrazioni del Primo maggio 1986, una festa che a Pripyat non c’è mai stata.

Il luna park mai inaugurato

Fino all’incidente del 26 aprile, lì vivevano 50mila persone e l’età media era di 26 anni. In città c’erano 13 mila bambini. Tra questi c’era Olena, che all’epoca aveva 8 anni, e oggi, quarantenne e madre di tre figli ("Tutti sani", ci tiene a sottolineare): "Non ci hanno detto nulla per tre giorni, poi mi hanno portato con i nonni in Crimea, mentre i genitori restavano qui. Dissero che saremmo stati via per tre settimane, sono tornata nel 2005. Ho rivisto la mia casa, le strade della mia infanzia e il luna park". Il simbolo della città fantasma, la cui inaugurazione era prevista il primo maggio 1986, cinque giorni dopo l’Apocalisse.


Il luna park visto dal basso (R. Scarcella)

Sulla strada del ritorno il pulmino si ferma ai margini della Foresta Rossa, dove gli alberi hanno cambiato colore per effetto delle radiazioni. Lì il contatore Geiger impazzisce: "Appoggiatelo al finestrino", dice Igor: 26-40-48 millisievert. I georgiani ridono, la coppia bresciana chiede di ripartire. A proteggerci, pare, sono le lamiere. Ma non è un posto in cui ci si sente a proprio agio.

Ai raggi X

L’ultima tappa è un doppio controllo ai raggi X per vedere se siamo stati contaminati. Tensione, sorrisi tirati, luce verde: siamo fuori, accanto al chiosco, tra gadget di dubbio gusto. Lì incrociamo un gruppo di bikers lituani, disinformati e insistenti che pensano di poter entrare, ma i militari li rispediscono indietro. "In diciotto anni di lavoro nei miei gruppi ho visto solo 4 contaminati". E cos’è successo a quei quattro? Finiscono in quarantena? Li portano in ospedale? "Hanno dovuto lavare i vestiti con acqua fredda. Ma io consiglio di buttarli". E basta? "Basta". That’s life.


Il momento dei raggi X alla fine del percorso (R. Scarcella)