Nostro reportage a sei mesi dal crollo del Ponte Morandi. Davanti al mare dei cantautori, nella settimana della musica, la città è già rinata. Parola di sindaco.
«Parlate di Genova, parlate della città, non solo del ponte. Ditelo che si è già rimessa in piedi, che è una città d’arte, che non è solo De André». E così, per intitolare due pagine che parlano di Genova abbiamo parafrasato il titolo di una canzone scritta da altro genovese illustre, Ivano Fossati; canzone nella quale De André, con De Gregori, canta soltanto (proprio non ci andava di lasciarlo fuori del tutto). Le transenne che coprono la vista del troncone in attesa di demolizione, una volta usciti dall’autostrada, sono funzionali ai lavori in corso, anche se a prima vista farebbero pensare a un maquillage pesante che nasconde le rughe, o a un più triste velo pietoso. Ma quel che fu del Ponte Morandi, intanto, è troppo mastodontico per essere celato. E la città non ha nessuna volontà di camuffare la sua cicatrice.
A Ponente, il monumento all’incuria umana è ancora lì, in tutta la sua nudità esposta, in attesa di essere portato via per sempre. Genova, da un punto preciso della Sopraelevata, sembra una Portovenere in scala 1:1000, e poco più dentro Napoli. Questione di trisillabi, questione di mare. «Si chiama Sopraelevata Aldo Moro, a esser precisi, ma per tutti è La Sopraelevata» racconta Corrado, il tassista che ci porta nei pressi del viadotto Polcevera dove la scorsa estate persero la vita 43 persone. Cercavamo lo scatto principale per la nostra pagina, e davanti a questa cosa sin troppo grande da spiegare, in una giornata di vento e di pioggia che sembra la stessa di quel 14 agosto – e Corrado ce ne dà la conferma – ci è preso il complesso del turista dell’orrido, i selfisti della Concordia coricatasi sul fianco all’Isola del Giglio e smantellata nel porto di Genova. Nel viaggio di ritorno, lasciamo i ricordi del Polcevera per fare due parole sulla follia umana: «Scendevano dalle navi da crociera – ci dice il tassista – e non volevano più andare a Portofino. Il giro turistico era diventato la Concordia. Fu così grande la richiesta di quel tragitto che come cooperativa taxi dovemmo preparare una tariffa apposita» Concordiamo che il genere umano, a volte, è particolare.
«Parlate di Genova, parlate della città d’arte, parlate della città inclusiva, che magari mugugna, ma non si lamenta», ci hanno detto. È per questo che, così come Fossati per De André, avremmo scelto la città in piedi al posto di quella in ginocchio. Ma Genova, nel frattempo, si è rialzata e non nasconde le sue ferite: le cura.
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«Era un po’ la nostra tangenziale, noi che non siamo di Milano». Corrado Papanti, tassista, quella mattina del 14 agosto 2018 lavorava. «L’acqua veniva giù forte – racconta mentre ci conduce sul Polcevera –, dieci volte più di oggi, non c’era un’anima in giro, non era il periodo di carico e scarico dei traghetti. Mi chiama la mia ragazza, mi dice: “Ma scusa, è venuto giù un ponte?”. Mi nomina Bolzaneto e io penso a un ponticello di raccordo, proprio mentre carico una giornalista del ‘Secolo XIX’ che mi dice: “Andiamo, andiamo in via Walter Fillak”. Mi dice “È caduto il ponte”. Ci ho messo un po’ a realizzare di che ponte si trattasse, perché per i genovesi quello è sempre stato il Ponte di Brooklyn. Il cognome Morandi, qui, lo abbiamo conosciuto quel giorno».
Un ponte futuristico, quando venne inaugurato il 4 settembre di 52 anni fa. Che di futuristico, il giorno in cui cadde, non aveva più nulla da un pezzo. «Chiudeva tutte le notti da mezzanotte alle 6 per questa manutenzione che oserei dire formale». Il muoversi velocemente dell’amministrazione è nelle parole di tutti i genovesi, constatiamo. «Per noi, che ne abbiamo sempre avuta una di sinistra, è una nuova amministrazione alla quale, quando è arrivata, più della metà della popolazione guardava con sospetto. Con la viabilità, aprendo la strada in mezzo al porto, ci sono riusciti e ora tutti sono contenti. Poi arriverà l’estate, il grosso flusso turistico che viene a prendere i traghetti per la Sardegna e per la Sicilia. Lì saremo messi alla prova di nuovo».
Sapere da Papanti che i genovesi si sono rimessi a prendere i treni e tutti ne beneficiano, a noi rimanda a questioni di traffico tipicamente ticinesi.
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Nella redazione del ‘Secolo XIX’, storico quotidiano genovese e della Liguria tutta, l’onda lunga del ‘Morandi’ non si è ancora arrestata. «E non si fermerà almeno sino a quando il nuovo ponte sarà costruito» ci dice Emanuele Rossi della Cronaca. «Il crollo del viadotto sul Polcevera per noi è stata una giornata da 11 settembre. Era il giorno prima di Ferragosto, dunque lavoravamo in pochi. Siamo stati richiamati e abbiamo lavorato anche il giorno dopo, anche soltanto digitalmente». Aggiornamenti sulla vicenda, se non quotidianamente, non mancano mai nemmeno adesso. Di certo, nessuno dimenticherà «le prime 7-8 pagine del giornale con la stessa copertura, per almeno tre mesi. Uno sforzo abbastanza straordinario».
Il traffico di Genova, ora, si è «abbastanza normalizzato», continua Rossi: «Sono state riaperte tutte quelle strade rimaste chiuse, che hanno letteralmente tagliato la Val Polcevera in due. Il 10 marzo sarà inaugurata la nuova rampa di collegamento dall’ultimo casello autostradale percorribile da Ponente a una strada a 3 corsie che attraversa la città, dalla quale si può risalire verso l’altro casello».
Rossi lo definisce «un surrogato del tracciato del ponte, grazie al quale si potrà percorrere con una certa velocità l’intero tratto». Un impatto, dal punto della viabilità, che può considerarsi assorbito «a parte quando c’è traffico, ma quello a Genova non ci è mai mancato, anche prima del crollo del ponte».
Le demolizioni sono annunciate per il prossimo 6 febbraio, «ma il cantiere – specifica Rossi – è già partito il 15 dicembre, con le opere propedeutiche, liberando le aree. Quel che resta del viadotto verrà tagliato con la tecnica degli strand-jack. In pratica, lo taglieranno come fette di una torta a più piani e, novità di questi ultimi giorni, verranno utilizzati gli esplosivi, con tutta probabilità dalle parte in cui ci sono le abitazioni».
Il genovese che non si lamenta è una delle immagini forti rilanciate dai media dopo il crollo. Da fuori, si percepisce la consapevolezza del problema, non il dannarsi. «Il genovese – continua il giornalista – non è un piangina, è piuttosto un mugugnone, cioè uno che non si lamenta apertamente, ma rimugina dentro di sé e non è mai contento. Però, in questo decreto legge cambiato e ricambiato fino alla sua riformulazione più digeribile per la città, c’entrano anche i genovesi, che si sono fatti sentire».
L’idea di ottimismo che si percepisce, più che da parte della città, «viene forse dal sindaco – conclude Rossi – che a volte lancia il cuore un po’ oltre l’ostacolo. Ma un sindaco deve anche essere questo».
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“E noi non ci sappiamo raccontare, quand’è il momento raccontare, nei bar davanti al mare”, scrive Fossati. E invece Roberto Panizza, re del pesto e titolare dello storico ristorante ‘Il Genovese’ di via Galata, la Genova sei mesi dopo ce la racconta in modo molto chiaro. «Premetto che l’indice di mugugno del genovese è costante a prescindere dagli eventi», esordisce quando seduti a uno dei suoi tavoli gli preghiamo di farci da termometro cittadino. «Siamo stati di nuovo sotto pressione. D’altra parte è noto come la Liguria sia molto fragile dal punto di vista del territorio. Oggi, guardare quel che resta del ponte, mette ancora a disagio». Esattamente come il ricordo di quel giorno: «Seguivo tutto in tempo reale dalla Sicilia, dove mi trovavo in vacanza. All’inizio pensavo a un fake, poi ho visto altre immagini. Mio fratello era appena transitato da lì, era arrivato fino a Celle Ligure senza accorgersi di nulla, perché aveva l’autoradio spenta. Al mio ritorno sono passato davanti alle macerie. Credevo di essere preparato e invece non lo ero. Il tuffo al cuore c’è stato e c’è ancora adesso. Penso a quando, da neopatentati, bisognava superare la prova di passare su questo ponte sospeso a 100 metri sul nulla, penso a quando eravamo orgogliosi di avere quello che al tempo era il ponte più alto d’Europa, penso a quando ero in coda e lo sentivo ballare e mi dicevo “Sarà fisiologico...”.
E il ponte nuovo? «Si fa sicuro. Così come abbiamo aperto quella strada che si doveva aprire da anni. L’abbiamo aperta in 2 mesi, come in Giappone, o in Svizzera» commenta con orgoglio. «Magari la consegna scalerà di 1 giorno o di 2, ma si farà. Qui abbiamo tempi che non sono minimamente italiani». C’è, in verità, un’altra cosa che è cambiata, che per il genovese (inteso come cittadino e non come ristorante) pesa più di altre: «Quest’idea rimasta nell’immaginario collettivo che Genova sia una città distrutta, una città in ginocchio. È vero, sono morte persone, ma non siamo stati colpiti da un terremoto o devastati da uno tsunami». Su quest’idea fuorviante, a Panizza fa eco Ornella D’Alessio, travel writer. «Questa città ha un sindaco amatissimo, che ben prima del ponte si era inventato questa idea di individuare alcuni personaggi e farli ambasciatori e ambasciatrici di Genova. Siamo una novantina di persone con il compito non solo di portare alto il nome della città nel mondo, e non solo di portare business, ma di dare lustro e rilievo a una città che ha i suoi problemi come tutte le città del mondo, ma che è inclusiva come poche. Una città nella quale giapponesi e indiani aprono attività e poi restano». Genova inclusiva, Genova solidale: «Nell’arco di pochi giorni, gli sfollati avevano già delle sistemazioni, gli autobus gratuiti. Ognuno di noi ha fatto qualcosa, e con entusiasmo. È stata un’ondata di solidarietà che raramente si vede in occasioni di questo tipo».
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Incontriamo Marco Bucci al Politeama genovese, storico teatro per storica Compagnia (goliardica Mario Baistrocchi). Si trova qui in quanto bersaglio – uno dei bersagli, visto che nessuna parte politica è risparmiata – dell'ironia della 'Bai', com'è comunemente detta questa antica compagnia teatrale italiana formata da attori e ballerini non professionisti.
Sindaco, vuole leggere per noi il polso di Genova? Chi meglio di lei...
La città ha lavorato parecchio sin dal primo giorno, c’è stata una gara di solidarietà non soltanto materiale, ma anche operativa, nel senso che per risolvere un problema così grande tutte le amministrazioni hanno lavorato assieme, i cittadini si sono dati da fare e le imprese anche. Dopo tre settimane, la cosa è nota, era già stata aperta una strada nuova, abbiamo consegnato le prime case agli sfollati dopo 6 giorni, i treni sono ripartiti dopo un solo mese. E poi le strade, ne sono state praticamente 5 aperte ogni due settimane. La città si è data veramente da fare.
Quanto è costato lo sforzo?
C’è stata una ripercussione economica tra settembre e ottobre, ma novembre, dicembre e gennaio sono stati ottimi mesi, addirittura migliori di quelli dello scorso anno. La città si muove bene, come dovrebbe, è senz’altro nel mezzo di un percorso di crescita.
Lei risulta un sindaco amato, una di quelle figure così rare e assai auspicabili capaci di portare dalla propria parte la parte opposta. Nel suo caso, la Genova storicamente di sinistra si ritrova a mostrarle stima, quasi simpatia...
Forse il motivo è che io non sono un politico, ma un amministratore che intende fare delle cose precise. E quando si vedono le cose fatte, non si può far altro che dire sì, le cose sono state fatte.
Il momento più difficile, partendo dal 14 agosto 2018 fino ad arrivare a oggi?
Quel giorno, quel 14 agosto è stato il momento più difficile, senza dubbio. Per la prima mezz’ora non ho capito davvero cosa fosse successo, e di conseguenza che cosa fare. Il primo pensiero è stato che fosse la conseguenza di un attacco terroristico, e io l’11 settembre, quello americano, l’ho vissuto a New York. Ho lavorato 22 anni negli Stati Uniti, quel giorno ero lì e quindi ho pensato subito a un gesto di quel tipo. Poi, quando ho saputo, ugualmente non sapevo che fare. Mezz’ora dopo la convocazione del Comitato operativo della Protezione civile, la mente operativa ha preso il sopravvento. Due ore dopo, nella prima conferenza stampa, ho cominciato a dire che Genova non è in ginocchio, Genova si rialza. In molti non mi hanno creduto.
Saranno stati quelli che la accusano di essere troppo ottimista...
È vero, ma è indispensabile esserlo. Se tu credi in una visione delle cose da fare, bisogna essere ottimisti. C’è sempre tempo, non dico per fallire, ma per abbassare gli obiettivi. Se uno parte con gli obiettivi bassi e li deve abbassare ulteriormente, alla fine non combina nulla. Partiamo come se dovessimo andare in cima all’Everest, poi magari arriviamo in cima al K2, o al Monte Bianco, ma qualunque sia la cima, saremo nel punto più alto di una montagna.
Quindi, dalla vetta attuale, si sente di assicurare tutti che i tempi saranno rispettati?
Per ora tutti i lavori sono in linea. Certamente, ci sono i cambiamenti dati dal lavoro quotidiano, ma con la correzione del ‘time-table’ siamo in linea con i tempi previsti.
Lo dico per il suo bene, guardi che in Svizzera la tengono d’occhio. Voi a Genova, se si pensa ai dopocatastrofe italiani, rappresentate un caso…
Ricordiamoci che per qualsiasi città della Svizzera il porto di mare più vicino è Genova. Genova è a tutti gli effetti un porto della Svizzera. Ricordiamoci anche che in aprile si terrà qui il bilaterale Italia-Svizzera, quindi sarà un’ottima opportunità. Quanto all’accostamento, posso dire che sono contento di riuscire a usare tempi tipicamente svizzeri, perché possiamo essere un’eccellenza per tutti. Io gli svizzeri li ammiro per questo. Tra parentesi, ho lavorato un anno a Lugano e uno a Ginevra. Gran bella esperienza.
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Genovese da 35 anni, nato più a destra (geograficamente, a La Spezia), Antonio Ornano si fa amare per quel cinismo che sa di Paolo Villaggio, per i tempi serrati della stand-up comedy e per l’aver creato una serie di personaggi che sono declinazioni multiple di un unico uomo, un po’ Ragionier Ugo (per condizione, o condanna), un po’ Michael Douglas in ‘Un giorno di ordinaria follia’. «Non deve stupire la compostezza di questo popolo – spiega Ornano – perché è l’indole. I genovesi sono abituati a starsene zitti, a rimboccarsi le maniche e andare avanti, che è una grande qualità. Il problema è che alle volte alzare la voce diventa indispensabile per avere le minime attenzioni».
Se il sindaco tasta il polso alla cittadinanza, il comico tasta quello di categoria: «Succede spesso che nei momenti di difficoltà ci si compatti un po’ di più. Uno dei problemi atavici della Genova artistica è che si accendono tanti focolai, ma con poco amalgama. Forse ci unisce quella voglia di leggerezza che non è superficialità. Al comico fa sempre piacere regalare serenità, anche se il giorno dopo si torna alla dura realtà». I famosi crescendo del Professor Ornano, rifrulli di comicissima ira, non sono soltanto materiale di scena. «Su quel ponte si gioca la credibilità di chi non ha perso occasione per esporsi più volte da agosto» aggiunge Antonio. «E questo governo a me non dà garanzia. Penso alla Sea Watch, bersaglio degli istinti primordiali e bestiali di molti».
Sanremo non è molto distante da qui, e se Claudio Baglioni crea dissenso, qualcosa è cambiato davvero in Italia. «Sì, in effetti anche Baglioni in questa situazione sembra un grande statista, dice cose che non t’immagini. Poi quando il ministro gli dice “tu non puoi parlare di politica”, allora a me viene da dire al ministro “allora tu non puoi menzionare De André”, perché se dici che ti piace De André e ne citi le canzoni, allora devi anche accettare Claudio Baglioni che ti dà del deficiente...». Sanremo, il Festival dei Fiori. «Speriamo rimanga, è una delle poche cose liguri che ci restano. Fa parte del costume italiano, con le sue contraddizioni e la sua fiera delle vanità. Ma non è una cosa di cui vergognarsi».