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La confessione ‘salva’ dall’ergastolo l’omicida di don Roberto

Il 53enne aveva ucciso il prete a Como, con una ventina di coltellate, nel settembre 2020

Omaggi in ricordo del prete (15 settembre 2020)
(Ti-Press)
20 dicembre 2022
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La confessione-rivendicazione ha ‘salvato’ dall’ergastolo il cinquantatreenne tunisino che con una ventina di coltellate la mattina del 15 settembre 2020 in piazza San Rocco a Como ha ucciso don Roberto Malgesini, il prete degli ultimi, nel momento in cui si apprestava a fare il giro della città per consegnare la colazione ai senza tetto. Se dai giudici della Corte d’Assise di Como il 28 ottobre 2021 è stato condannato all’ergastolo, lo scorso 9 novembre dalla prima sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano si è deciso di ridurre la pena a 25 anni di reclusione, a seguito del riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti alla aggravante della premeditazione e della recidiva.

Una decisione che a Como aveva suscitato sconcerto, polemiche e interrogativi che dopo il deposito delle motivazioni della sentenza hanno trovato risposte certamente coerenti in punto di diritto, ma incomprensibile per chi è a digiuno del codice di procedura penale. Come, s’interrogano i comaschi, l’omicida confessa di aver acquistato qualche mese prima del delitto il coltello utilizzato per uccidere don Roberto e di averlo destinato al delitto, e questa confessione viene ‘premiata’ con lo sconto di pena? Una confessione, secondo i giudici dell’Appello, che non fu una "ammissione dell’evidenza" ma al contrario "un fondamentale indicatore per la ricostruzione del fatto".

A salvare il 53enne tunisino dall’ergastolo è stato il suo comportamento immediatamente successivo all’omicidio di don Roberto ("un martire" per Papa Francesco) quando coperto di sangue raggiunse la caserma dei carabinieri per "rivendicare il gesto, confessando – scrivono i giudici milanesi – in fatto l’aggravante della premeditazione: senza questa ammissione o addirittura parlando di una eventuale ‘rabbia cieca’ alla vista del sacerdote, nessuna aggravante sarebbe mai stata possibile, anzi l’omicidio – per come si è configurato – avrebbe ‘evocato il dolo d’impeto’ se lo stesso omicida non avesse sostanzialmente ammesso la premeditazione". La sentenza di seconda grado non chiude l’iter giudiziario. La difesa è ricorsa in Corte di Cassazione.

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