Tour di intimità e ricorrenze che aprono ad altre ricorrenze, nella Sala Teatro che per affetto è un po’ Campovolo (cronaca di un acustico successo)
Partiamo dalla fine, da “ci vediamo a Campovolo, prima o poi”, le ultime di poche, essenziali parole spese da Luciano Ligabue durante il concerto di sabato scorso al Lac, a chiudere e ad aprire una serie di ricorrenze importanti: i trent’anni di chitarre di Federico ‘Fede’ Poggipollini al suo fianco, per esempio, o la prima volta del figlio Lenny dal vivo con papà, dopo aver suonato nell’ultimo disco ‘Dedicato a noi’. “Per molti veniva visto come un azzardo, invece sapevo benissimo che, in un’epoca di ‘familismo’, potevo contare su un ‘familismo meritocratico’”. Rubiamo a Ligabue parole ufficiali pre-Lac, prima che questo tour teatrale, anch’esso ‘Dedicato a noi’ (di nome e di fatto) trasformasse “il figlio di Luciano” (sempre parole del babbo) in un minimalista della batteria che sposa pacca e carezze, tensione e rilascio, tipicamente paterni.
Campovolo, si diceva. Il 21 giugno 2025 sarà ‘La notte di Certe notti’. Per la proprietà transitiva delle canzoni dentro gli album, saranno trent’anni anche per il relativo ‘Buon compleanno Elvis’ (nel senso di Presley, che di anni ne compierebbe novanta). Il 21 giugno 2025 saranno anche vent’anni dal primo concerto di Ligabue a Campovolo, quello di quando il traffico di ritorno intasò le statali e pure l’autostrada, e (parafrasando altro poeta) tutti dormimmo a stento, chi sdraiato sui prati, chi sui sedili reclinabili di auto in mezzo ai parcheggi, chi dentro auto parcheggiate in mezzo ai suddetti prati. Sino all’alba del 22 giugno 2005, quando le radio dissero che si potevano riaccendere i motori, tra qualche malcontento dei campovolesi (gli autoctoni) e un sacco di cose da raccontare. Poi sarebbero arrivati altri Campovoli, mai pindarici, sempre sontuosamente e compostamente italorock.
Tornando a Lugano. Affidando i momenti chiave di un’intera carriera alle parole dell’autobiografia ‘Una storia’ (Mondadori, 2022), il Ligabue narrante del Lac regala il ricordo di una chitarra ricevuta in dono dal padre per introdurre ‘Tutte le strade portano a te’, da ‘Fuori come va?’. È il primo momento confidenziale nel flusso di canzoni aperto dalla tanto amata ‘Leggero’, in una scenografia che da dylaniana nella prima parte (drappi rossi e proiettori vintage) diventa ‘wall of sound’ nella seconda. Il tour è teatrale, tutto suona acustico come l’acustica di Capitan Fede, come il contrabbasso di Davide Pezzin, come i campioni di pianoforte e Hammond di Luciano Luisi e le fruste di Lenny, a dare sfumature diverse a ‘Questa è la mia vita’, ‘Quella che non sei’ e ‘Siamo chi siamo’, sottratte alle frequenze dei palasport e ricondotte a quelle delle scatole di uova delle sale prova. Se per le solerti maschere del teatro è impossibile sin da subito spegnere le luci degli smartphone, su ‘Happy Hour’, in chiusura di prima parte, inizia la levata dalle poltrone che continua su ‘I ‘ragazzi’ sono in giro’ e qua e là per la seconda metà di spettacolo, incluse le femminilità di ‘Piccola stella senza cielo’ e ‘Le donne lo sanno’.
Mentre tra le mani di chi suona scorrono un’elettrica squadrata alla Bo Diddley, un dobro luccicante alla Mark Knopfler e una mandola alla Mauro Pagani (di Campovolo), torna il libro: “Eccomi qua nel mio garage, ho poco più di vent’anni e scrivo canzoni che non sono mie. Mi rigiro la Gibson fra le mani e mi escono diverse melodie. Ma testi, nisba”. Fino a “un giro di accordi semplice semplice”, suonato “sbadatamente”, sul quale di lì a poco andranno le parole tutti i giorni, le storie “di me e dei miei amici, sul mio maggiolone, alle quattro di un sabato notte”. È così che arriva ‘Sogni di rock ‘n’ roll’, “è lei, la prima canzone davvero mia, la voce davvero mia. Ecco dov’ero, ecco dove sono sempre stato”. Incisa nel 1988 da Pierangelo Bertoli, ‘Sogni di rock ‘n’ roll’ finisce in ‘Ligabue’, il primo album: ‘Non è tempo per noi’, solco n.5 di quel vinile, arriva come un sigillo nel Lac che batte la mani sul tre, mentre un banjo la riporta dalle parti di Nashville.
Nell’alternanza ‘Tra palco e realtà’, tra il vecchio e il nuovo che conducono sino a ‘La metà della mela’, dall’ultimo disco, c’è spazio per il racconto dell’epica ‘Eroi di latta’. Ancora dal libro: “E quindi tu, benedetto signor nessuno, nel primo pezzo dei tuo primo album monti sulla tua cattedrina e punti il dito su chi ha avuto un livello di successo che probabilmente non vedrai nemmeno con il binocolo?”, dice Angelo Carrara nel cucinino degli studi di registrazione. Un bagno di umiltà muterà ‘Eroi di latta’ in ‘Balliamo sul mondo’. Quell’affondo sugli eroi di latta dei favolosi anni Ottanta, su chi si era “impegnato di più a fare il fotomodello che il musicista” sarebbe stato rimandato di vent’anni, coi fotomodelli diventati i “bravi artisti, furbacchioni e topi” del Ligabue dalle spalle ormai sufficientemente larghe per cantare ‘Caro il mio Francesco’, su ‘Arrivederci, mostro!’.
Nell’entusiasmo campovoliano del Lac in piedi, con la promessa che una volta tornati a casa non scriveremo mai “il rocker di Correggio” (che per usura rasenta “il menestrello di Duluth” e “la tigre di Cremona”), urliamo contro il cielo e ascoltiamo le verità di ‘Taca banda’, ma solo dopo che sia passata ‘Certe notti’, con i suoi “sogni di cover band”, quelli del Ligabue venuto a cambiare le scalette degli eroi dei locali di metà anni Novanta, desiderosi di sentirsi dire le parole di Mario, quello del Bar Mario, quando il Luciano che sognava il rock and roll era sul punto di decollare: “Adesso io e te firmiamo un patto col sangue”, dice il gestore; “Tu fammi fare un concerto ogni sera – scrive, dice Ligabue – e io ti firmo quello che vuoi. Anche con il midollo”.