PFM canta De André 45 anni dopo: il batterista della band, in concerto al LAC l’1 e il 2 dicembre, ci racconta la nascita della storica collaborazione
Impantanata nei modesti esiti artistici di soubrettes scollacciate dal discutibile repertorio, nelle tendenze carcerarie di rapper affetti da misoginia e uso isterico del rimario, nell’inarrivabile presunzione di cantanti (si fa per dire) trap con nomi d’arte da graffitari, la musica italiana si aggrappa all’ostinazione di alcuni eroi del buon gusto musicale, come la gloriosa PFM, che l’1 e il 2 dicembre si esibirà a Lugano al LAC nel concerto “PFM canta De André Anniversary”. Sono trascorsi 45 anni da un tour che cambiò la storia della musica italiana, contribuendo ad abbattere barriere che sembravano definitive, in un’epoca cupissima in cui ogni sillaba, ogni nota doveva passare attraverso un rigido quanto demenziale vaglio ideologico.
“La nostra tournée”, avrebbe poi commentato De André, “è stata il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire ed eseguire le canzoni. Un’esperienza irripetibile perché PFM non era un’accolita di ottimi musicisti riuniti per l’occasione, ma un gruppo con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio”. Convincerlo non era stato facile, ci racconta Franz Di Cioccio, fondatore e anima di uno dei pochi complessi italiani ad avere sfondato fuori dall’Italia.
L’idea di questa insolita accoppiata fu tua. Come riuscisti a convincere De André, che non amava fare concerti e non era esattamente un animale da palcoscenico?
Col gruppo giravamo il mondo. Eravamo stati negli Stati Uniti, in Canada, in Messico, in Sudamerica, scoprendo che era normale che artisti con stili e pubblici diversi si incontrassero per scambiarsi idee e lavorare insieme. In Italia questa possibilità non veniva presa in considerazione, perché c’era sempre una casa discografica che teneva le redini dei rapporti e metteva una serie assurda di veti. Quando ho visto Jackson Browne insieme con gli Eagles ho capito che potevano fare dei concerti pazzeschi mantenendo ognuno le proprie caratteristiche, e allora mi domandai perché mai questo non potesse succedere anche in Italia. E così quando sono andato in Sardegna la prima volta ho proposto a Fabrizio di suonare insieme e lui mi ha risposto: “belìn, tu sei matto!” (Di Cioccio ne imita l’accento genovese, ndr). Non un grande inizio, ma insistendo gli ho fatto capire che se ci sono affinità elettive, musicali, creative il connubio può funzionare, anche perché tu non stai facendo l’impiegato: stai facendo l’artista. E la musica si fa scambiando, non rubando.
E in cosa consisteva lo scambio?
Fabrizio aveva una capacità poetica inarrivabile, non scriveva delle rimette messe l’una vicina all’altra, ma creava dei racconti molto densi. Gli ho garantito che non lo avremmo messo a disagio suonandoci sopra, perché è questo il vero problema di chi canta, ossia la paura che gli strumenti lo coprano. Una cosa che ovviamente può funzionare se tu non sei uno che cerca solamente di vendere dischi e di avere successo e basta. Lui scriveva poesie e noi lo abbiamo sostenuto con la nostra musicalità, facendo in modo che aderisse a quello che raccontava. Mentre cantava “tua madre ce l’ha molto con me perché sono sposato e in più canto” era accompagnato da una situazione musicale che acchiappava lo stomaco.
Da deandreologo, ti ringrazio per avermi accennato ‘Giugno ’73’.
E allora continuo: “...però canto bene e non so se tua madre sia altrettanto capace a vergognarsi di me”. Io però te l’ho recitata, lui invece la canta e non so quanto sia chiara la differenza: quando la senti cantare rimani secco perché mai nella vita avresti sentito una cosa simile. È come se uno, citando Carducci, dicesse “Bei cipressetti, cipressetti miei”: è una poesia e capisci che non riusciresti a cantarla, perché altrimenti dovrebbe esserci un ritmo dietro, e il ritmo di questa poesia non combacia con quello che potrebbe avere in una canzone. Con Fabrizio era diverso. Le nostre note gli hanno dato una capacità emotiva supplementare. La PFM non era un gruppo che prende e suona: se vuole suonare, suona di brutto e fa delle musiche bestiali, ma su quei versi servivano carezze sonore, musica quieta capace di portare l’ascoltatore dentro la poesia. E siccome la poesia c’era e la musica pure, abbiamo fatto scopa, primiera e settebello.
Cosa intendi per settebello?
Pensa a ’Il pescatore‘: c’è la nostra introduzione che prepara la storia e regala una certa eccitazione, poi lui entra e canta “All’ombra dell’ultimo sole”. Sono solo cinque parole, ma tu sei già colpito. Perché questo funzioni è necessario che l’insieme sia equilibrato. Bisogna far convivere la musica e le parole in un grande pathos, senza che un elemento cerchi di sopraffare l’altro. Ci vuole spessore, sensibilità, ma anche amicizia tra chi canta e chi suona.
Oltre a riarrangiare i classici di De André, nel concerto riproporrete i classici del vostro repertorio prog?
Non penserai mica che in un concerto non portiamo la nostra storia! Ci sarà tanta PFM, compatibilmente con le due ore che avremo a disposizione. Se poi vorrete sentirci suonare per più tempo, sappiate che per noi non sarà un problema, ma voi dovrete portarvi dietro le brioches, i cornetti e le coperte.
E dopo il ricordo di De André e del vostro tour con lui, cosa c’è nel futuro della PFM?
Finiti i concerti, cominceremo a scrivere un po’ di cose nuove. Abbiamo voglia di tornare con un disco di inediti.