Per autore ed editore, quella di un libro sull’intera sua produzione è ‘un'impresa’. Ne pubblichiamo l'introduzione
I contributi dedicati a Claudio Monteverdi usciti negli ultimi decenni sono numerosi, sparsi in pubblicazioni di non sempre facile reperimento, e scritti in varie lingue: insieme agli Editori Zecchini abbiamo pensato che una sintesi aggiornata degli studi sarebbe gradita dal pubblico. Questo libro ha la sola pretesa di riassumere i risultati delle ricerche: abbiamo imboccato la via del taglio divulgativo e della contestualizzazione.
Ciò detto, non nascondiamo la difficoltà di scrivere un libro sull’intera produzione di Monteverdi, complessa e vasta: la stima e l’ammirazione nei confronti della sua musica, tra le vette più alte toccate dall’arte moderna, hanno suggerito di tentare comunque l’impresa. Vengono proposte una cronologia, uno sguardo sulla vita musicale delle città di Monteverdi, Cremona Mantova Venezia, i riferimenti a letterati, pittori, architetti conosciuti dal Nostro, e uno sguardo sull’humus musicale del quale egli si è nutrito. Spazio verrà offerto al madrigale italiano del Cinquecento, agli inizi del melodramma e alla pratica musicale sacra veneziana: tre capitoli fondamentali e affascinanti della nostra storia della musica. Le lettrici e i lettori, accomunati dalla nostra stessa passione per l’arte di inizio Seicento, sapranno perdonarci se per strada, accecati dal sole del “divino Claudio”, dimenticheremo qualche personaggio o avvenimento.
L’attività musicale di Monteverdi è strettamente legata ai testi letterari: i suoi madrigali, le opere, le messe o i vespri lo dimostrano ampiamente. Nelle sue lettere egli si dimostra più volte consapevole dei suoi limiti linguistici, «la mia ignoranza che non mi ha lassiato imparare a dir conciso», «persona che vaglia poco in tutto», «non essendo mia professione il scrivere», «io scrivo, ma però sforzatamente», giudizi confermati da Giovanni Battista Doni in una lettera a Marin Mersenne, «non è un grande letterato»; tuttavia, le scelte culturali raffinate, gli interventi sui testi, e la profonda comprensione della materia letteraria che lo portano a rivestimenti musicali geniali di 42 autori, da Petrarca ai suoi contemporanei, dimostrano la sua conoscenza nell’àmbito della letteratura italiana. Nelle pagine che seguono affioreranno i nomi dei poeti più amati dal Nostro: Tasso, Guarini, Marino, i librettisti Striggio, Rinuccini, Strozzi, Badoaro, Torcigliani, Busenello. Eppure, non sappiamo in che modo egli si costruì il suo apprendistato letterario: se a Cremona qualcuno lo istruì, se il maestro Marc’Antonio Ingegneri gli suggerì letture; l’ambiente culturale alla corte mantovana fu sicuramente di stimolo a Monteverdi, e ancor più quello veneziano. Monteverdi stesso menziona una sua ipotetica pubblicazione teorica musicale che fa supporre il suo interesse verso la trattatistica. Qui ci lanciamo in un esercizio di fantacritica; non riusciamo a resistere a una tentazione analoga, si parva licet, a quella di Manzoni, che, nei Promessi sposi, si compiace di descrivere la biblioteca di don Ferrante, “per il solo piacere, e il solo brivido, di fingere” come direbbe Georges Perec: quali potevano essere i libri che Monteverdi conservava nella sua biblioteca? Meglio: quali libri desidereremmo trovarvi?
Individuiamo quindi il nucleo della biblioteca di Claudio, una cinquantina di volumi: iniziamo con Bembo: Asolani, Prose della volgar lingua e Rime. Non può mancare il Canzoniere di Petrarca, magari nell’edizione curata da Ludovico Dolce a Venezia nel 1547. Anche se Monteverdi non ha mai musicato i versi di Ariosto, immaginiamo la presenza dell’Orlando furioso; leggermente defilate, alcune pubblicazioni di Aretino e Franco, come la gustosa Priapea, oppure la Cazzaria di Antonio Vignali o La puttana errante di Lorenzo Venier. Supponiamo, o ci auguriamo di trovare alcuni capisaldi della letteratura veneziana di metà Cinquecento, frutto mirabile della stagione “scapigliata”: i commenti alle novelle del Decameron di Francesco Sansovino, la Sferza de scrittori antichi e moderni di Ortensio Lando, libro in biasimo dei libri, le Invettive e Le argute e facete lettere di Cesare Rao; qualche bell’esempio di riscrittura, come i Dialoghi di Nicolò Franco, o le varie selve, fino ai capolavori di Tomaso Garzoni, e qualche trattato di mnemotecnica come L’arte del ricordare di Giovanni Battista Della Porta. Ma non potranno mancare le bizzarre creazioni di Antonfrancesco Doni, dalla Zucca ai Marmi ai Mondi, tra le letture più spiritose e geniali del Cinquecento: Doni rappresenta l’aspetto capriccioso e irregolare del secolo al massimo grado, anche nel caso della Libraria, tra i primi esempi di bibliografia in lingua volgare, e il suo doppio, paradossale, ironico, colossale nonsense bibliografico, la Seconda libraria, catalogo di scrittori perlopiù inesistenti e di libri inventati, autoparodia ludica che si inserisce nel filone della laus ignorantiæ; Monteverdi avrà pure apprezzato, nei suoi momenti di svago, il commento critico, personalissimo e poco ortodosso, delle Rime del Burchiello, sempre di Doni.
Non osiamo pensare alla presenza di libriccini eretici di alta tiratura, davvero pericolosi da custodire e nascondere, come il Beneficio di Cristo o l’Opera divina, visti anche i problemi causati da simile letteratura a uno dei figli di Monteverdi, incarcerato e tormentato dall’Inquisizione. È invece d’obbligo trovare nella sua biblioteca le Rime di Tasso, con Aminta, Gerusalemme liberata e anche Conquistata, i cui versi Monteverdi conosce bene, così come il Pastor fido e le Rime di Battista Guarini; e, perché no, la Secchia rapita di Alessandro Tassoni, pubblicata nel 1624. Il settantenne Monteverdi avrà avuto anche la pazienza di leggere in napoletano Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, fratello della celebre cantante Adriana.
Non mancherà Cervantes, plausibilmente nella prima traduzione italiana, in due volumi, curata da Lorenzo Franciosini e pubblicata nel 1622 e 1625, L’ingegnoso Cittadino Don Chisciotte della Mancia, «opera gustosissima e di grandissimo trattenimento a chi è vago d’impiegar l’ozio in legger battaglie, disfide, incontri, amorosi biglietti, e inaudite prodezze di Cavalieri erranti».
I trattati di musica che Monteverdi potrebbe aver posseduto sono numerosi: irrinunciabili, L’antica musica di Nicola Vicentino, i tre di Gioseffo Zarlino, e la Pratica di Lodovico Zacconi; sicuramente il Dialogo di Vincenzo Galilei, padre di Galileo; forse quelli, numerosi, di Adriano Banchieri. Immaginiamo che prima di recarsi a Venezia, desideroso di informarsi sulla città e la sua musica, Monteverdi abbia acquistato i trattati degli strumentisti virtuosi lì operanti, Girolamo Dalla Casa, maestro dei concerti a S. Marco, e Giovanni Bassano, suo successore, oltre al tastierista Girolamo Diruta; e sfogliato la guida turistica di Venezia di Sansovino, Venezia città nobilissima e singolare nell’ultima versione, quella di Giovanni Stringa del 1604. Monteverdi si sarà procurato il libro fondamentale del suo rivale Artusi, l’Arte del contrappunto.
Lo schedario della biblioteca di Claudio termina con due autori speciali e diversi. Letterato, organista, compositore con la fama di libertino, è Girolamo Parabosco, autore del bestseller I Diporti, che Monteverdi avrà acquistato in una delle numerose ristampe, ben otto tra il 1552 e il 1607. Girolamo è figlio d’arte: il padre Vincenzo era titolare dell’organo della cattedrale di Brescia; trasferitosi a Venezia verso la fine degli anni Trenta del Cinquecento, Girolamo ha il privilegio di figurare come giovanissimo interlocutore nel Dialogo della musica di Antonfrancesco Doni nel 1544. Ben inserito negli ambienti veneziani che contano, diventa titolare dell’organo di sinistra di S. Marco a Venezia nel 1551; è autore di teatro e di una fortunata serie di lettere e di rime. La cornice dei Diporti ci racconta di una semplice occasione oziosa, una gita in laguna, per andare a pesca: era consuetudine, per i gentiluomini veneziani, durante l’inverno, recarsi in «certi capannucci in mezzo l’acque fabbricati, qual di asse, quali di pietre e qual di cannucce d’alga e di luto [= fango] fatti per comodo e albergo dei pescatori [...] che chiamano valli». In uno di questi capanni si riuniscono diciassette gentiluomini: la scelta è indicativa, tra le personalità individuate da Parabosco spiccano Federico Badoer, il fondatore dell’Accademia della Fama, Daniele Barbaro, committente della Villa Maser di Palladio, e addirittura Pietro Aretino. Ma il clima volge al peggio, e la brigata, rigorosamente maschile, decide di trascorrere il tempo raccontando a turno diciassette novelle. Al termine c’è tempo anche per alcuni corollari: quattro Questioni, un elenco di Motti, una serie di Poesie dello stesso Parabosco, e una serie di Lodi di donne. Ci immaginiamo Monteverdi ridere sotto i baffi nella lettura delle pagine più piccanti: ad esempio per uno dei motti proposti da un bolognese, Giannantonio Fallarta: uno «si vantava che tutte le femmine gli volevano bene, e il Fallarta rispose che non era meraviglia, perciò che egli aveva viso di quella cosa che sommamente piace loro». È tradizione riconoscere Parabosco nel giovane musicista ritratto da Tiziano nel quadro Venere e l’organista, oggi conservato al Prado. Parabosco muore giovanissimo, nel 1557, a 33 anni: la vedova, Diana, si risposa l’anno seguente con il collega di Parabosco all’altro organo di S. Marco, Annibale Padovano.
L’ultimo autore è Giambattista Marino: incontreremo spesso il poeta napoletano nelle prossime pagine. Dopo essere stato messo all’indice, non solamente dal Sant’Uffizio, ma dall’intera storiografia letteraria già dal Settecento, in quanto rappresentante di spicco della poesia “artificiosa”, il Cavalier Marino viene oggi finalmente considerato in tutta la sua importanza grazie innanzitutto ai contributi filologici che l’hanno riabilitato, da bella addormentata della letteratura europea fino a maestro della postmodernità e autore culto. Oggi capiamo senza preconcetti la sua lucidità e le sue capacità retoriche: l’Adone, il più lungo poema della nostra letteratura, ci racconta l’Italia di quei decenni, un’«epopea senza eroi né battaglie», un poema che celebra le arti, gli spettacoli, la musica, i giardini, le feste, i banchetti, i profumi: Marino nell’Adone ci parla dell’otium, non, come nelle epopee anteriori, del negotium. Immaginiamo Monteverdi, avido lettore delle Rime, dell’Adone, delle Dicerie sacre, “inarcar le ciglia” alla lettura di virtuosismi letterari come il baccanale in cinque ottave tutte in rime sdrucciole e con ogni verso contenente altre due parole sdrucciole: qui sono presenti otto strumenti musicali, tutti rigorosamente sdruccioli, come la parola “musica”:
La cetera col crotalo e con l’organo
su i margini del pascolo odorifero,
il cembalo e la fistula si scorgano
col zuffolo, col timpano e col pifero,
e giubilo festevole a lei porgano,
ch’or Espero si nomina, or Lucifero,
ed empiano con musica che crepiti
quest’isola di fremiti e di strepiti. (Adone VII 119)
Chissà, infine, se il nostro Claudio si sarà procurato, scovandolo in una delle tante botteghe a Rialto o in Frezzaria, il libro-culto dei bibliofili, quell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, incunabolo pubblicato da Aldo Manuzio, «il libro più bello mai stampato»; forse avrà rintracciato le Battaglie d’amore in sogno in un esemplare dalla ristampa curata nel 1545 dagli eredi di Manuzio.
Il presente volumetto è debitore dei contributi selezionati in Bibliografia, dei proficui scambi con amici musicisti e musicologi, e del magistero di due persone speciali, Francesco Giambonini, esimio marinista e fine musicofilo, e Luigi Ferdinando Tagliavini, il cui riverbero è percepibile nelle pagine che seguono. Mi è caro ringraziare Paolo Borgonovo, Luigi Colombo e Pietro Montorfani per i preziosi suggerimenti. E Giovanna Lepori: senza il suo sostegno potente e costante, questo libro non sarebbe giunto a termine.