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Una diga contro la barbarie

Perché la violenza, la crudeltà, il dolore? Se l’arte fa sorgere queste domande, la posso chiamare civile

‘Non c’è spazio per la poesia nell’ospedale Al Quds di Gaza City’
(Keystone)

Sono in viaggio per il Festival Internazionale di Poesia Civile di Vercelli e mi viene in mente mio padre. Già, perché non ho mai capito la passione che aveva per la Pro Vercelli: una squadra, mi è stato detto, sulla cresta dell’onda quando mio padre, negli anni Venti-Trenta, era appassionato footballeur. Impiegato spedizioniere a Chiasso, ho una foto che me lo mostra calciatore in bragoni bianchi, sguardo ardito, maglia a righe e in testa un cespuglio di capelli in fiamme. Perché aveva scelto proprio la Pro Vercelli? La cosa m’intriga e mi avvicina, affettivamente, alla città piemontese dove sono diretto.

Ma, a proposito, che cos’è la Poesia Civile? Tutta la poesia dovrebbe essere civile, cioè ben costruita, non affettata, di pubblica utilità. Dovrebbe, come afferma Leopardi, impedire agli uomini di ammettere un pensiero vile e di fare un’azione indegna (anche se, disincantato, il grande si affretta a precisare che questo sentimento nobile dura il tempo di mezz’ora).

La poesia è una diga contro la barbarie, dice Danilo Kis, l’autore di Giardino, cenere e di Dolori precoci. La poesia, la letteratura in generale, per me è civile se mette a nudo le piaghe interiori e esteriori, accende il fuoco della coscienza, dà un senso alla vanità dell’esistenza. Se riesce a far breccia nella corazza del nostro io e a far filtrare uno spiraglio di luce dentro di noi. Perché la violenza, la crudeltà, il dolore? Se l’arte fa sorgere queste domande, la posso chiamare civile. Se mi fa uscire dal narcisismo, dal mio piccolo mondo soddisfatto di sé.

Sto facendo queste pensate sul Tilo in partenza da Chiasso, quando una risposta amara mi viene dal giornale. Leggo: “Non c’è spazio per la poesia nell’ospedale Al Quds di Gaza City. A occupare quello spazio sono paura e privazioni. Gli sfollati, distribuiti sui sei piani dell’edificio, fanno fatica anche a procurarsi il cibo. Le condizioni igieniche sono terribili. Ma le bombe sono il vero pericolo”.

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Ora due poliziotti italiani, pistola in vista, chiedono i documenti ai passeggeri, la maggior parte frontalieri. La mia vicina è di Luino, diretta a Como, e si meraviglia. Ma è un segno dei tempi: le guerre in corso, i migranti, la paura... I compagni di scompartimento parlano tra di loro di certi rifugiati ucraini che si vedono in giro con i macchinoni. La poesia civile dovrebbe confrontarsi anche con queste cose. Sporcarsi le mani con la cronaca, con la politica. Avere a che fare, in modo diretto e indiretto, anche con le due donne orientali che si stanno addormentando sul sedile di fronte, o con questa ragazza che è venuta a sedersi accanto a me e ora sta leggendo la Storia del pensiero cinese, o col ragazzotto di fianco che guarda dal finestrino il degrado della periferia milanese, vivificata da festoni rossi arrampicati ai muri, istoriati con graffiti smarriti tra gli arbusti che infestano i margini della linea ferroviaria.

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Non è facile dire che cosa sia veramente la poesia, con o senza aggettivi; è più facile dire che cosa non lo è: non lo è quella scritta dalla donna sdraiata su un prato fiorito – l’ho vista in posa qualche tempo fa sulla pagina a colori di un settimanale – che dichiara di scrivere versi ma di non leggerne mai; ma neanche quella di chi confonde il giornalismo con la parola poetica. La poesia, il più antico e universale dei generi letterari, non può ridursi a cronaca, senza rinunciare alla sua identità. Non basta parlar di guerra o di cose tremende per essere poeta.

Ma io sono qui per il Festival di Poesia Civile. Vediamo cosa succede. Ieri la “maratona di poesia” si svolgeva nel Salone Dugentesco di via Galileo Ferraris, davanti a una ventina di persone; oggi, domenica, si fa il reading in una libreria del centro. In questa saletta seminterrata oggi c’è il pieno; ma la voce della poetessa giunge attenuata, o meglio vinta dalla musica che viene da fuori, dove si svolge la premiazione di un’altra maratona, quella sportiva della città di Vercelli. “Elisa Miotto è stata premiata...”, si sente urlare al microfono. E adesso al podio è richiesta la presenza di un medico. L’esterno vince sull’interno, la realtà sull’utopia. Ora, finalmente, però, nella saletta arriva la voce della poetessa: che improvvisamente si è trasformata in cantante. Una voce angelica che interpreta una musica antica. Forse è questa la poesia civile, sconfitta dalla prosa quotidiana. Oppure vincente, ma solo per mezz’ora.

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Tornato a baita, ripenso alle cose viste a Vercelli, la città amata anche da mio padre footballeur. Le cose belle, perché “senza la bellezza appena potrebbe stare la vita de gli uomini”, dice l’umanista Leon Battista Alberti.

Ecco dunque le cose che più mi sono piaciute: la lunetta primitiva dell’Antelami nel portale centrale della basilica di Sant’Andrea, con il martirio che il santo subì in croce a Patrasso, e l’ancona di Gaudenzio Ferrari sull’altar maggiore di San Cristoforo, con quella Madonna raggiante sotto l’arancio ricco di fronde e frutti. Ma purtroppo il pensiero deve tornare subito alle cose orribili di questi giorni di crudeltà e di nuovo mi arrovello sul senso che può avere, in un mondo come il nostro, la parola poesia.

Mi viene in aiuto un poeta, Iosif Brodskij, col suo discorso tenuto nel 1987 in occasione del conferimento del Nobel. Parlando dell’importanza pubblica dell’arte in generale, e della letteratura in particolare, della sua possibilità di sconfiggere la violenza, afferma:

“Dirò semplicemente che secondo me - non è una conclusione empirica, ahimè, ma solo teorica - per uno che ha letto molto Dickens sparare su un proprio simile in nome di una qualche idea è impresa un tantino più problematica che per uno che Dickens non l’ha letto mai. E parlo proprio di letteratura di Dickens, Sterne, Stendhal, Dostoevskij, Flaubert, Balzac, Melville, Proust, Musil e via dicendo: cioè di letteratura, non di alfabetismo o di istruzione. Una persona che sa leggere e scrivere, una persona istruita può benissimo, dopo aver letto un libro o un libello politico, uccidere un suo simile e magari provare, nell’ucciderlo, un’esaltazione dottrinaria. Lenin era istruito, Stalin era istruito, e anche Hitler lo era; quanto a Mao Zedong, lui scriveva addirittura versi. Ma tutti avevano una cosa in comune: l’elenco delle loro vittime era infinitamente più lungo delle loro letture”.


Keystone
Non basta parlar di guerra o di cose tremende per essere poeta