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‘If Only I Could Hibernate’, come una mano amica sulla spalla

Quello della regista Zoljargal Purevdash è un connubio delicato ed elegante tra magnanimità e grande capacità tecnica, che stupisce e incanta

Spunti di riflessione, speranza e tenerezza
24 ottobre 2023
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Il Film festival diritti umani ci sta abituando a un livello altissimo di prodotti filmici e non sempre e solo per una questione di umanità mostrata, empatia o denuncia sociale. È il caso di ‘If Only I Could Hibernate’, diretto dalla regista Zoljargal Purevdash, che è un vero e proprio gioiello sotto tutti i punti di vista; un film che certo colpisce per la sua profondità e delicatezza, ma che si distingue anche da una sceneggiatura al limite della perfezione di scrittura, una recitazione sorprendente basata sui piccoli gesti e le microespressioni, una colonna sonora da brividi nonché una fotografia magnifica, perfettamente al servizio della regia e che rispecchia una grande padronanza del mezzo cinematografico.

Piccolo capofamiglia

La storia è ambientata nella periferia di Ulan Bator, conosciuta ai più come la capitale più fredda e tra le più inquinate al mondo. Le ger, tipiche iurte mongole, dominano il panorama e al loro interno vivono molte delle famiglie meno agiate. Qui vive il 16enne Ulziibaar con la madre, due fratellini e una sorellina. Onesto e con una particolare inclinazione allo studio, Ulzii è costretto ad alternare scuola e lavori saltuari per prendersi cura dei propri parenti come capofamiglia, cause l’assenza del padre deceduto e i problemi d’alcol della madre depressa e analfabeta. Nonostante la precaria situazione, il giovane è altruista con chi gli sta intorno ma, per questioni d’orgoglio, fatica a farsi aiutare, perché la sua più grande paura è l’essere ridotto a un mendicante.

La famiglia è costretta dunque a dividersi: la madre si trasferisce in campagna, assieme al figlio più piccolo, per lavorare raccogliendo pinoli, mentre il giovane rimane con gli altri due fratelli in città, nella speranza di vincere un premio di fisica che gli garantirebbe una borsa di studio all’estero, quindi migliorando la condizione dei suoi cari. Le difficoltà causate dal freddo e dalla scarsità di cibo sono tuttavia insormontabili e Ulzii si ritrova a dover tagliare legna illegalmente, sacrificando la sua presenza scolastica ma, con l’aiuto di un professore che crede in lui e due vicini di casa anziani, ritrova la possibilità di sfruttare il proprio impegno, riscoprire la propria identità e le cose importanti della vita.

Opera profonda e completa

Lo spaccato dolce e toccante di una famiglia della Mongolia, unita contro le avversità con la comunità vicina, che ne diventa un’estensione, dove uno sguardo vale più di mille parole, come un caloroso abbraccio. La lotta di un giovane integerrimo che si ritrova costretto a essere un adulto, con il rischio di perdere l’unica possibilità palpabile di un futuro migliore e lontano dalla povertà, oltre che sé stesso. La sospensione del giudizio è tale da permettere allo spettatore una forte immedesimazione ed empatia fino al finale che, aperto e riflessivo, racchiude una profonda cognizione grazie a un sorriso misterioso, spensierato e profondo come quello della Gioconda, che rispecchia un raggiungimento spirituale e umano simile a quello stato zen di non-mente teorizzato da, tra gli altri, Takuan Sōhō o Miyamoto Musashi.

Un film che riempie lo spettatore di spunti di riflessione, speranza e tenerezza, permeato di genuinità e il cui non-detto chiama il medesimo continuamente in causa, con una forza in grado di far vacillare ogni pregiudizio e mettendo sul piatto dei valori sacrosanti: l’unione della famiglia e il sacrificio per quest’ultima, l’altruismo, l’abbandono di un certo tipo di ego e la perseveranza nei momenti di difficoltà, che spesso sono passeggeri e non per forza una condizione ineluttabile di vita, sono solo alcuni degli spunti analizzati dalla regista.

Come accennato, i comparti visivo, sonoro, tecnico e della recitazione sono spaventosi e rendono questo film un’opera completa, al pari del celebre ‘Dersu Uzala’ di Akira Kurosawa; la macchina da presa scruta, tra le fessure di una staccionata o dal retro di una vettura, con distanza e rispettando l’intimità dei personaggi, accompagnata da una colonna sonora soave, composta con strumenti locali come il morin khuur, il violino mongolo, alternati ai fischi del vento e allo scoppiettare delle stufe di quell’ambiente silenzioso e peculiare che è la steppa mongola.