Con lo spettacolo ‘Acqua: un reading’, in programma al Teatro Sociale, Ferruccio Cainero ci invita a comportamenti più responsabili
Ci sono cose a cui non pensiamo, altre ne diamo per scontate, e intanto il mondo va a rotoli. Infognati i politici in una perenne campagna elettorale, smarriti gli intellettuali nei vischiosi meandri dei loro labirinti interiori, rimangono gli artisti a darci la sveglia, prima che precipitiamo nei dirupi vicino ai quali incoscientemente giochiamo. Acchiappatori nei campi di segale, come sogna di diventare il giovane Holden, e come è da tempo l’attore e regista Ferruccio Cainero, in scena domani sera al Teatro Sociale di Bellinzona con lo spettacolo ‘Acqua: un reading’. Gli domandiamo come sia nata la decisione di impegnarsi su un tema così urgente come la scarsità di risorse idriche: “Intuivo la gravità del problema, ma è stato solo confrontandomi col professor Claudio Valsangiacomo della Supsi, una vera autorità in materia, che sono riuscito a metterlo a fuoco. Poi però ho dovuto fare i conti col solito problema: se vai in giro a raccontare pericoli e preoccupazioni, rischi che non ti vogliano ascoltare, e così devi trovare la formula giusta per affrontare un argomento pesante in maniera leggera. Sul palco mi accompagna un bravissimo chitarrista, Pierluigi Ferrari”.
Quindi è uno spettacolo in cui si riflette e nello stesso tempo si ride?
Beh, in genere quando racconto qualcosa finisco sempre per far ridere la gente. Con una avvertenza: io sono il giullare e il pubblico è il re; ora, al re il giullare può dire tutto quello che vuole, ma deve farlo ridere, altrimenti il re gli taglia la testa. E il re vuole ridere per rassicurarsi e sentirsi superiore, estraneo, al di sopra dei problemi e delle responsabilità.
Non dev’essere facile far ridere sull’ecologia...
Guardi che non sono tanto d’accordo con queste definizioni, perché se uno parla di ecologia è come se incasellasse lo spettacolo, limitandolo, e invece si tratta di un tema vitale, che riguarda tutti: l’uomo ha perturbato il ciclo dell’acqua, determinandone in alcuni casi quell’eccesso e in altri quella scarsità che provocano le peggiori devastazioni. Di sicuro, è bene sapere a cosa si va incontro, anche per prendere le misure necessarie.
E quale risultato vuole ottenere?
Mi sono sempre dato lo scopo di sensibilizzare il pubblico, sin da quando facevo il clown e lavoravo in strada con gli amici. Devo questa attitudine alla militanza politica sessantottina delle mie origini. Mi sono sempre detto: ho il privilegio di fare l’artista nella nostra società ricca, ho il tempo di pensarci, di leggere, di informarmi, e dunque ho il dovere di ricambiare tutte queste persone che devono andare a lavorare ogni giorno e magari non riescono a documentarsi a dovere per prendere coscienza di tanti problemi. Se li facessi solo ridere, mi sembrerebbe di imbrogliarli. Invece provo a comunicare, in maniera leggera, nozioni che ho scoperto e assimilato anche con una certa fatica. Penso che sia questo il dovere di un artista.
L’attenzione verso certi temi non è però una novità.
Certo che no: negli Stati Uniti un fortissimo movimento ecologista aveva stimolato la produzione di automobili elettriche, ma poi negli anni 80 l’arrivo di Ronald Reagan segnò un grande passo indietro. Fu letteralmente proibito di parlare di crisi climatica e si lanciò la moda dei Suv, queste auto gigantesche che consumano tantissimo. Io stesso nel 1987 acquistai una piccola auto elettrica. Si parlava tanto di queste cose, ma poi è come se la maggioranza delle persone avesse detto: “Ma no, dai, che ce ne frega, consumiamo e facciamo finta di niente!”.
E allora nel suo spettacolo che cosa c’è?
Affronto l’argomento partendo da ricordi della mia infanzia, come le pozzanghere su cui giocavamo da bambini, e dalla mia esperienza passo al rapporto che l’umanità ha con l’acqua, spiegando che cos’è, da dove viene, quanta ce n’è nel nostro pianeta. Per esempio, se la mia testa fosse la Terra e noi raccogliessimo tutta l’acqua che c’è nel mondo in un catino, questo catino sarebbe grande come il mio occhio. E siccome di questa acqua solamente il 3% è potabile, parliamo di un piccolo neo sulla mia guancia, per cui in fin dei conti di acqua non ce n’è così tanta. E se la perdi, non la puoi rifare. Un altro fatto su cui spingo gli spettatori a riflettere: ci piace andare in giro indossando bellissime magliette di cotone, magari con su scritto ‘Salviamo il pianeta’, ma non sappiamo che per produrne una serve l’acqua di venticinque vasche da bagno... E siccome in Pakistan hanno deciso di piegarsi alle leggi del mercato, e dunque di vendere tutto il cotone che riescono a vendere, per produrre tutte queste magliette e blue jeans si consumano i tre quarti dell’acqua del fiume Indo, che non arriva più nemmeno a sfociare nell’oceano. Dov’è finita l’acqua dell’Indo? Nel nostro armadio, ma noi non ce ne rendiamo conto.
Lei viene da una terra, il Friuli, che a questo genere di distrazioni ha pagato un tributo pesantissimo.
E infatti nello spettacolo parlo della diga del Vajont e del disastro che seguì al suo crollo, per ricordare che finché comandano gli ingegneri idraulici va tutto bene, ma quando comandano gli ingegneri di quell’altro liquido, che si chiama denaro, ecco che diventa tutta un’altra faccenda, in cui entrano in gioco le dinamiche e le storture della nostra economia capitalista. Ma, pur citando fatti di cronaca abbastanza conosciuti, la mia linea narrativa rimane personale. Le faccio un esempio di cosa racconto sul palco. Quando ero ragazzo, era bello correre in spiaggia su una Vespa con i fari spenti, e poi dal buio assoluto sbucare all’improvviso sulla strada illuminata dove mi aspettava una ragazza. Facevo davvero un figurone. Ma avevo anche scoperto che nessuno toglieva la rete della pallavolo, e finendovi addosso capii come si sentiva una sardina catturata nella rete dei pescatori, o come si sente un sasso lanciato dalla fionda. Se poi qualcuno dei suoi lettori fosse in pensiero per la Vespa, posso aggiungere che la moto andava avanti ancora per un po’, prima di adagiarsi mollemente sulla sabbia. Quello che ho imparato da questa storia è, innanzitutto, che ci vuole fortuna per non lasciarci le penne al primo errore, e poi che da questo errore bisogna imparare. L’umanità invece commette da sempre gli stessi sbagli e questo non mi sembra intelligente. Insomma, racconto aneddoti autobiografici leggeri e divertenti, ma li metto accanto alle gravissime stupidaggini che fanno parte del modo in cui concepiamo il nostro stare su questa Terra. Una Terra che ci ostiniamo a considerare una fonte inesauribile di risorse, ma dobbiamo sapere che non è vero per niente.