La recensione

Con ‘Asteroid City’, Wes Anderson supera la prova del metacinema

In questa prova di maturità artistica, il regista eleva il suo peculiare stile mischiando alla spensieratezza una nuova profondità (nelle sale)

Wes Anderson sul set
(Keystone)
1 ottobre 2023
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C’è una legge non scritta, per molti cinefili e cineasti, secondo cui il metacinema costituisce un banco di prova, una sfida particolarmente ostica perché soggetta a una sorta di lente d'ingrandimento impugnata da critici e spettatori. Il motivo di ciò potrebbe essere il collegamento, quasi inevitabile, con capostipiti della storia del cinema; Ėjzenštejn, Vertov, Buster Keaton, passando poi per la commedia intellettuale di Woody Allen, cui questo ‘Asteroid City’ strizza leggermente l’occhio. Tra odi e critiche, Wes Anderson è un regista che non sempre ha messo d’accordo tutti, ma il suo stile visivo è indubbiamente diventato un marchio che lo distingue come autore. Forse talvolta indugiante in romanticherie e soluzioni un po’ stucchevoli, qui asciugate, riesce a raggiungere alti livelli di profondità e densità, mettendo la cinepresa davvero al servizio del film in un miscuglio molto consapevole tra il suo tratto giocoso caratteristico, una narrazione di pirandelliana memoria e tutta una serie di critiche, omaggi artistici e riflessioni interessanti.

La storia si svolge su diversi piani e la narrazione a volte si spezza brevemente, ma il grosso della cornice è delineato da un narratore esterno, che racconta di un regista e un gruppo di attori alle prese con uno spettacolo teatrale, che prende poi vita. È il 1955 e Augie Steenbeck, fotografo da poco vedovo, arriva presso la desertica Asteroid City per un convegno astronomico, con le proprie tre bambine e il primogenito Woodrow, in concorso per una borsa di studio insieme ad altri giovani ingegnosi inventori. Comincia quindi la conoscenza tra le varie famiglie e un rapporto particolare si instaura tra Augie e Midge Campbell, famosa attrice e nota a tutti i presenti. Una dimostrazione pseudoscientifica viene sconvolta poi dalla breve apparizione di un disco volante e un alieno, con conseguente messa in quarantena del sito da parte del governo americano.

Surreale e veritiero

L’approccio caratteristico ed estremamente simmetrico di Wes Anderson, da un punto di vista di immagine, a volte un po’ altalenante tra utilità e mero esercizio, trova qui forse il suo apice come supporto di una struttura molto studiata e precisa. In quello che è probabilmente il suo intreccio più complesso finora, riesce a dare vita anche oltre i limiti dell’inquadratura, un implemento dell’uso del fuori campo che risulta un perfezionamento di stile e dimostra un’estrema padronanza raggiunta. Il solito approccio visivo e attoriale bidimensionale, con una costante comunicazione con il teatro e una grande gestione del ritmo, porta lo spettatore su un piano surreale che risulta però veritiero allo stesso tempo; vi è un’interscambiabilità tra storia reale e rappresentata, una fusione tra verità e finzione in cui autori e attori escono dalla trama, attraverso ironiche frasi ricorrenti come “questa commedia non la capisco”, o addirittura fisicamente. Una pernacchia, come quella che Beep Beep fa a Willy il Coyote nei Looney Tunes, in quello stesso deserto dell’Arizona, che non nasconde però tutta una serie di riferimenti critici all’Area 51, ai test nucleari, a varie guerre, al lockdown del Covid, al divismo e chi più ne ha, più ne metta. Il caos che si crea con le storie che sfuggono, come un treno perso per il troppo dormire, ha quell’atmosfera assurda da ‘Sei personaggi in cerca di autore’ o ‘Se una notte d’inverno un viaggiatore’ e rispecchia un piacere nel fare arte e un grande amore per il cinema; tra varie citazioni spicca un primo piano stretto, quasi l’unico del film, a Margot Robbie, acconciata come la sua stessa Elisabetta I in Maria regina di Scozia, in un cortocircuito particolare in cui i cinefili potrebbero rivedere addirittura Giovanna d’Arco di Dreyer o Bibi Andersson in Persona.

Ci sarebbe ancora molto da dire e approfondire su questo denso film, che riesce a suo modo a essere monumentale senza essere esagerato e dove tragedia, western, commedia e fantascienza si intrecciano, così come i personaggi, tutti con un tocco di assurda genuinità.