Al Turba di Lugano per la performance ‘one to one’ di Camilla Parini, inserita nel Fit Festival
Dal ritaglio di un articolo di giornale si legge: “la memoria è come un arcipelago frammentato che forma la nostra identità e ci rende ciò che siamo”. Sparsi sul tavolino ci sono i negativi di alcune fotografie di famiglia, alcune sono state sviluppate e poi appese alle pareti dell’ingresso della casa in cui mi trovo. Ci sono anche dei libri sparsi, aprendoli si trovano dei passaggi letterari sottolineati a matita. Accanto alla poltrona in velluto ci sono dei gadget, quelli tipici, che si trovano nei pressi dei luoghi turistici, all’interno di quei negozietti fortemente riconoscibili eppure tutti uguali.
Frugo tra gli oggetti e i ricordi della vita di qualcun altro, nella penombra; solo avvicinandomi alla luce flebile di una lampada da terra posso notare i dettagli. Mi trovo in una vecchia dimora del 1600, un edificio incastonato tra i tanti, a metà di via Cattedrale a Lugano. Il Turba, circolo per l’emancipazione culturale, è quasi invisibile dalla strada. Nell’appartamento dove ci sono i libri, gli articoli di giornale, le fotografie tagliuzzate e gli appunti sparsi di cui si parlava appena sopra, ha vissuto per gran parte del XX secolo il filosofo e studioso Romano Amerio, eppure quei ricordi non sono i suoi. Nelle immagini abbandonate sui mobili compare spesso la stessa famiglia, svizzera o no, che almeno in apparenza sembrerebbe aver passato molto tempo in montagna, soprattutto d’inverno sulle piste da sci. Curiosando ancora, il volto di una bimba bionda è decisamente quello che s’incontra più spesso. Una carta d’identità, oramai annullata, riporta il nome ‘Camilla Parini’: è l’artista.
Camilla Parini ha qualche anno in più rispetto a me, tra le sue fotografie ce ne sono alcune scattate nel 1992 sul Ghiacciaio del Rodano. Io nel 1992 non ero ancora nata, ma quella fotografia in particolare, con l’artista e suo fratello da bambini in piedi accanto a due orsi polari di pezza a grandezza naturale all’interno della grotta di ghiaccio, azzurra e bianca, del Rodano: quanto ho invidiato quella fotografia da bambina, penso. Sì, perché, la stessa identica fotografia era incorniciata ed esposta sopra al mobile del salotto nella casa di mia zia, solo che i due bambini non erano Camilla Parini e suo fratello, ma i miei cugini. Doveva essere stata una moda di quegli anni, una gita obbligata per le famiglie ticinesi degli anni Novanta del secolo scorso. Una moda però temporanea perché negli anni successivi i miei genitori non mi ci hanno mai portata sul ghiacciaio del Rodano, anche se di gite per la Svizzera ne abbiamo fatte parecchie. Non mi ci hanno mai portata o io non me lo ricordo?
Trovo un altro ritaglio di giornale dove “Gli avvenimenti personali con contenuto emotivo, ci rendono unici, distinti dagli altri esseri umani. Perché ricordiamo alcune cose e ne dimentichiamo altre?”, questa frase è sottolineata in verde. Passo a un libro “Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili” di Simon May, lo apro e leggo a voce alta: “La finzione, alimentata dal culto della sincerità, finisce per confondere la nostra stessa identità. Quello che siamo ‘davvero’ è in larga misura opaco.”
Da quanto tempo sono in questa stanza? Mi sono persa nei ricordi di una persona che neppure conosco, finendo con lo sconfinare nei ricordi della mia storia familiare che pure l’artista a sua volta non può conoscere, come potrebbe? Mi ricordo che quando sono arrivata al Turba una persona all’ingresso, di sotto, mi ha detto di farmi pure un giro per la stanza nella quale mi ha accompagnata e che, quando sarei stata pronta, sarei potuta entrare nell’altra stanza, quella nella quale si sarebbe svolta la performance. Sarei potuta entrare in qualsiasi momento. Ciò che mi aspetta oltre alla porta che ci separa è uno spettacolo ‘uno a uno’, solo io e Camilla Parini. Ho molte cose da chiederle. Mi decido e varco la soglia, ma lei non è nella stanza. O meglio, al posto dell’artista mi ritrovo a ‘tu per tu’ con il suo alter ego. “Ciao” – le o gli – dico. Ma è davvero l’artista? Il personaggio mi risponde con un gesto della mano, un gesto di saluto, poi mi consegna un album fotografico: la sua drammaturgia. “Lo apro?” – le o gli – chiedo ancora; mi risponde con un altro gesto affermativo. Il personaggio quindi non parla? Sono io a doverlo animare in un altro modo? Oppure restiamo in silenzio?
Apro l’album dei suoi ricordi, in cui l’artista tagliando e ricucendo la sua storia famigliare propone una versione inedita di quello che è per Camilla Parini, solo un punto lungo la sua ricerca, cominciata molti anni prima, sul tema dell’identità e della memoria. Giocando tra realtà e finzione, mossa forse dall’incapacità di definirsi e il bisogno di raccontarsi leggo la sua drammaturgia, la sua storia, che in parte si è sovrapposta alla mia già nell’altra stanza. Mi saltano subito all’attenzione dei refusi nel testo, errori di battitura che sono sempre in agguato, che possono rappresentare un grande motivo di frustrazione per chi, con le parole ci lavora, ma dopo un po’ mi dico che, invece, per chi con le parole – crea – questi errori a volte possono essere l’inizio dell’Altro.
Una volta terminata la performance chiedo a Camilla Parini, che finalmente ora può uscire dal suo ruolo, di raccontarmi le storie degli altri, di quelle persone che prima di me hanno fatto l’esperienza di questa performance. La ascolto, tra lo stupore e la meraviglia: le storie degli altri è ciò che io mi sono presa da questo spettacolo ‘uno a uno’.