Merito del magico sodalizio Rifici-Fasolis, di un grande cast, di altissimi momenti corali femminili, in mezzo a quadri quasi caravaggeschi
Ancora una volta la comunione di intenti tra la regia di Carmelo Rifici e la direzione musicale di Diego Fasolis è risultata sinonimo di perfetta riuscita e ha creato unanimità, di critica e di pubblico. Dopo il grande successo del Barbiere di Siviglia nel 2018, con una spavalda quanto raffinata messa in scena tra azulejos e piogge dorate, un cast stellare dove avevano trionfato i vocalizzi di Edgardo Rocha e Lucia Cirillo, e il sound inaudito dei Barocchisti, per l’occasione in gran spolvero, ecco il trionfo di un’Anna Bolena per la quale le aspettative erano altissime.
Gaetano Donizetti è al massimo della sua parabola creativa, in quel 1830 dove, per il pubblico di Milano, Felice Romani gli confeziona un libretto che dà modo al Grande Bergamasco di esercitare tutto il suo talento di operista: il dramma, un drammone in piena regola, ci racconta della seconda moglie di Enrico VIII e della sua fine, ma soprattutto di sfrenate ambizioni (maschili e femminili), squallidi giochi di potere, e molta violenza. Donizetti offre il meglio di ciò che ci si poteva aspettare in quegli anni, in un’Europa teatrale dominata dal gigante Rossini, e all’indomani del ritiro del pesarese: il prodotto è perfettamente riuscito, e, affidato a due star come il soprano Giuditta Pasta e il tenore Giovanni Battista Rubini, fa furore: per la prima volta nella carriera di Donizetti, una sua opera viene rappresentata anche all’estero, Parigi e Londra.
In primo piano da sinistra Ruzil Gatin (Lord Riccardo Percy) e Carmela Remigio (Anna Bolena). Sullo sfondo il coro. Primo da sinistra Luigi De Donato (Lord Rochefort), ultimo a destra Marco Bussi (Enrico VIII)
La visione di Carmelo Rifici, lunedì sera al Lac per la Prima, ha convinto: in una messa in scena slegata da coordinate spaziotemporali precise, abbiamo goduto dei quadri quasi caravaggeschi, grazie anche alle luci di Alessandro Verazzi, di grande impatto visivo; grazie a un meccanismo scenico ruotante, ingegnoso, rapido e intelligente, il racconto evolveva naturalmente, comprese le rapide apparizioni di carnefici, boia appena evocati ma potenti. Rimarranno impressi i due momenti corali femminili del secondo atto con le cantanti del Coro Rsi da brividi: veri compianti funebri, grazie alla cura dei movimenti assicurata da Alessio Maria Romano. Oppure, all’inizio, la canzone del paggio Smeton – ruolo en travesti – accompagnato dall’arpa sulla scena, un magnifico strumento Érard del 1900, e un’insuperabile Elisa Netzer.
Il cast scelto per l’Anna Bolena luganese, uno spettacolo che verrà replicato grazie alla coproduzione con i teatri di Reggio Emilia, Piacenza e Modena, è indovinatissimo. Carmela Remigio è la regina Anna per antonomasia dei nostri giorni, vincendo ancora una volta la sfida con un ruolo straordinario per difficoltà e lunghezza: la tenuta di Remigio impressiona, fino alla chiusura del sipario (e oltre: con il tremendo colpo di percussione finale). Arianna Vendittelli è una bravissima e convincente Giovanna, altro ruolo di impervia difficoltà, ed eccellenti sono risultate le voci di Luigi De Donato, Paola Gardina e Marcello Nardis, rispettivamente Rochefort, Smeton e Hervey. La presenza scenica, il colore vocale e la dizione di Marco Bussi, che debuttava nel ruolo di Enrico VIII, hanno conquistato il pubblico; la voce del tenore Ruzil Gatin svetta su tutte: Gatin ha doti notevoli, dizione impeccabile, atteggiamento sempre adeguato, sguardo intelligente, timbro chiaro e squillante, àmbito vocale larghissimo. Sul palcoscenico del Lac ha sbaragliato, mietendo consenso e applausi, suscitando ammirazione tra le poltrone del pubblico che ha riempito la Sala Teatro, dai fanatici di Donizetti agli appassionati meno agguerriti ma molto accorti.
M. Pasquali
Da sinistra Ruzil Gatin (Lord Riccardo Percy), Carmela Remigio (Anna Bolena), coro e mimi, in fondo a destra Luigi De Donato (Lord Rochefort)
Diego Fasolis si ripresenta al Lac in veste di direttore musicale operistico: il pubblico l’ha subito accolto trionfalmente, in virtù dei suoi successi internazionali, che lo vedono regolarmente dirigere alla Scala o alla Fenice, e in numerosi altri templi del melodramma, vero ambasciatore culturale della Svizzera italiana nel mondo. La lettura di Fasolis rispecchia i principi musicali dei quali è paladino: studio sistematico e analitico del testo, consapevolezza storica e stilistica, caratteristiche che l’hanno portato al rispetto delle varie prassi esecutive, e alla logica scelta dell’uso degli strumenti storici. L’approccio a un mottetto di Palestrina, un’opera di Monteverdi, un concerto di Bach o un oratorio di Händel non può e non deve risultare sostanzialmente differente di quello a un’opera di Rossini, Verdi o Puccini: ogni compositore ha scritto per gli strumenti musicali che aveva a disposizione nella propria epoca, che hanno determinato le scelte compositive, in un’andata e ritorno estetica, che vede a loro volta i liutai influenzati e stimolati dai compositori. Il risultato dell’approccio consapevole di Fasolis era percepibile fin dalla sinfonia di Anna Bolena, e in seguito nelle delicate parti solistiche, nei fiati così caratteristici, nelle scelte di tempo e di agogica, nell’impasto degli archi creato insieme al violino di spalla Duilio Galfetti, fino alla precisione e varietà dei numerosi e raffinati recitativi accompagnati che costellano la partitura, assicurati dai Barocchisti, per l’occasione ribattezzati I Classicisti.
La conoscenza della prassi esecutiva, l’uso di strumenti storici per il repertorio finalmente anche Ottocentesco, non costituiscono più un’opzione, ma un’urgenza.