L'epico ‘Banel e Adama’, il necessario ‘Black Flies’, l'incolore ‘Firebrand’. E gli applausi alla produzione svizzera ‘Blackbird Blackbird Blackberry’
Frenetiche giornate di Cinema tra commercianti di pellicole, pubblico curioso, addetti ai lavori e una marea di giornalisti di tutti i generi, con prevalenza di chi nel mondo scrive su migliaia di siti e blog, finito da tempo ormai il dominio della carta stampata e le file all’entrata delle proiezioni, un tempo ordinatamente divise tra i vari gradi della stampa e oggi – includendo tutte e tutti – chilometriche, con un aumento dei tempi di attesa. Per fortuna è tornato il sereno sulla Croisette, dove in concorso piovono film e dove è sbarcata una bella produzione svizzera, ma andiamo con ordine.
In competizione abbiamo visto l’interessante ‘Banel e Adama’, opera prima della giovane regista e sceneggiatrice franco-senegalese Ramata-Toulaye SY, dramma sentimentale sull'amore di una coppia che si illude di superare il peso delle convenzioni sociali, ma soprattutto un importante viaggio nelle affascinanti immagini che la regista sa offrire. La Banel del titolo è una giovanissima vedova andata come seconde nozze al giovane Adama; vivono in un remoto villaggio nel nord del Senegal, dove lui è il nuovo capo villaggio stabilito; insieme sognano di andare a vivere da soli su una collina che gli altri ritengono maledetta e che loro invece, scavando sulla sabbia lentamente, scoprono essere una ricca abitazione. Purtroppo, la loro regione è segnata dalla siccità, il bestiame muore, i giovani emigrano, Adama sceglie di guidare il suo popolo, tradendo la voglia di Banel, per averlo tutto per sé; per questo aveva ucciso il precedente marito, per questo sceglierà di vivere da sola il sogno, sacrificandosi a questo. Film di impianto potente, di coinvolgente forza, canto epico, antico, detto con una misurata sapienza di mezzi.
Keystone
Ramata-Toulaye SY
Un vero confronto di civiltà ci porta, sempre in concorso, ‘Black Flies’ di Jean-Stéphane Sauvaire, adattamento del romanzo ‘911’ della scrittrice noir americana Shannon Burke, la vicenda dell’equipaggio di un’ambulanza nella vorticosa vita violenta di New York. Diciamo subito che oltre alle ascendenze letterarie, Sauvaire racconta, con questo film, un pezzo della sua vita mentre lavorava come autista di ambulanze nella irruenta New York degli anni 90. Protagonisti sono il giovane Ollie Cross (Tye Sheridan), paramedico, sta studiando medicina, e Rutkovsky (Sean Penn), esperto medico di emergenza. Formano una squadra affiatata, proprio per il lavoro che fanno, salvare la vita a delinquenti vittime di scontri a fuoco, a sfortunate madri affette da Aids, a donne vittime di violenza familiare o stupri, ad anziani malati ai polmoni o dementi, a un campionario di situazioni che sono la vita di ogni città. Nel film vediamo come maturano la loro amicizia e solidarietà, come incidono sulle loro menti tutte queste situazioni, e il giovane comprende perché l’altro non ha trovato pace nei suoi amori, finendo per perdere la figlia. Egli stesso chiude con violenza una dolce fiaba d’amore appena nato, incapace com’è di mettere in tranquillità i suoi incubi. Al termine, una scritta ci ricorda l’alto numero di suicidi tra chi fa questo lavoro, e uno lo vediamo nel film e sappiamo perché: perché salvare la gente qualche volta ti può portare a sentirti un dio, ed è drammatico scoprire che non è vero. Ben girato e ben recitato il film, applaudito dal pubblico e snobbato da troppa critica, merita di essere visto e ripensato: ciò che scorre senza gentilezze sullo schermo è la vita, la stupida vita di chi lavora per gli altri senza chiedere grazie.
Non convince, invece, ‘Firebrand’ di Karim Aïnouz, ennesima pellicola dedicata a Katherine Parr, la sesta e ultima moglie di Enrico VIII. Ricordiamo tra le migliori la prima nel 1933, con il capolavoro di Alexander Korda ‘The Private Life of Henry VIII’: lì c’era Charles Laughton che interpretava il re, con Evelyn Gregg nel ruolo di Caterina; qui gli attori sono solo volenterosi e suonano esageratamente falsi, mentre il racconto procede sbadato e incolore, incapace di esprimere una qualsiasi emozione. Come spiegava John Ford, i costumi sono così lindi e immacolati da far risultare tutto un mondo di cartapesta.
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Karim Ainouz
Di buon livello si è mostrato alla Quinzaine il film ‘Blackbird Blackbird Blackberry’, produzione svizzera firmata da Elene Naveriani e ambientata tra le montagne della Georgia. Si tratta di un teso ed emozionante ritratto di donna: lei è Ethero (una bravissima Eka Chavleishvili), e gestisce una modesta bottega; ha 48 anni, vive ancora sola, è vergine, e deve affrontare lo scherno delle malelingue della sua età. Vive nel ricordo del rigore ottuso del padre e di un fratello capaci solo di renderla colpevole della morte della madre, colpita dal cancro dopo averla messa al mondo. Succede che incontri un uomo della sua età già nonno, e che tra loro maturi una sorta di amore. Ma quando lui l’avverte di aver cambiato lavoro per fare il camionista in Turchia, lei si sente persa. Di più: ha delle strane perdite intime che le fanno pensare di essere malata come la madre. Convinta di morire, resterà sorpresa, scoprendo la bellezza di non essere più sola, ma di avere la grande occasione di far vivere. Film che canta insieme al peso dell’essere donna, la libertà dell’esserlo. Ben girato e interpretato, ha meritato tutti gli applausi.