Intervista al regista ticinese, autore di ‘Un cardinale donna’ che con poesia racconta nientemeno che Claudia Cardinale. Ci siamo fatti gli affari suoi.
C come caso, cinema, colonia, casa, cappuccino, Chisciotte (Don), comunione, commedia, calamari, cardinale. Apparentemente senza senso, l’elenco di vocaboli sparpagliati con allitterazione in C (sì, è saccente) segna punti fermi su una mappa esistenziale tutta in divenire. Le parole sono sedimentate dopo una conversazione con Manuel Maria Perrone, regista, sceneggiatore, narratore (collabora con Nazione Indiana) ticinese, che in poco meno di un’ora ha raccontato un po’ della sua storia, che pare fatta di cinque vite.
Manuel (1981) così si descrive: «Ho tante facce, che sono poi solo una: sono un griot (*) che chiede giusto un albero e qualche persona seduta in cerchio ad ascoltare». Negli anni, il regista ha realizzato diversi cortometraggi fra cui ‘Amen’ (2020) e ‘Golconda’ (2015) presentati al Locarno Film Festival. E ancora: ‘Hotel el Naim’ (2018, co-diretto con Shirin Abou Shaqra) presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes; ‘Lamur’ (2018, co-diretto con Iacopo Fulgi, che ricorda un po’ ‘Comizi d’amore’ di Pasolini), ‘Rêves d’occasion’ (2012). Ora è al lavoro per il primo lungometraggio.
L’occasione di intervistarlo è data dal corto ‘Un cardinale donna’ (2023) realizzato con Claudia Cardinale e proiettato in occasione della retrospettiva che il Moma di New York le ha dedicato lo scorso mese di febbraio. Sì, quella Cardinale; la Cardinale di ‘8½’, ‘La ragazza di Bube’, ‘Il gattopardo’, ‘C’era una volta il West’, ‘Fitzcarraldo’… la lista è lunga, perché in 84 anni ha recitato in 184 film facendo la storia del cinema, e mi fermo qui.
Ma dal Ticino a Claudia Cardinale a New York il passo non è così breve: Manuel lo racconta vagando in un periplo che tocca Libano, Africa, Stati Uniti, Centro e Sud America, ma anche Europa. Iniziamo dalle coordinate familiari: «Sono nato e cresciuto a Bellinzona, poi a Chiasso, Massagno e Origlio». Il suo ultimo domicilio è francese: «Ora, sto fra Marsiglia, Milano (dove sono padre) e il Ticino, dove ho iniziato a collaborare con Rete Due. Questo è un posto vivido di storie, dove ho vissuto una delle esperienze formative più importanti: la colonia di Comunità familiare».
La faccio brevissima: dopo essere andato in Africa alla ricerca dei griots (aveva 18 anni), Manuel va a Bruxelles e poi Padova per imparare il metodo Jacques Lecoq. In seguito, durante una parentesi “antropologica” all’Università di Neuchâtel, conosce un tizio (a Losanna) che cerca di vendergli una macchina fotografica: «Era napoletano, ci siamo messi a cantare». In quattro e quattr’otto, mettono in piedi uno spettacolo e partono per il Sud America.
Ripartiamo dalla Cardinale per intraprendere un viaggio a ritroso. «Tutto nella mia vita è capitato per errore, che è la mia marca. Durante il lavoro per il casting per il mio lungometraggio, un amico, a un’ora da Parigi, mi dice “ti invito a cena: ho una sorpresa per te”. Ci vado, aspettando mi siedo su una panchina. C’è una vecchina che inizia a raccontarmi le sue cose, subito capiamo di poterci parlare in italiano. È Claudia Cardinale. La sorpresa del mio amico è lei». Manuel coglie l’occasione e le presenta il progetto del suo film, che ben lo accoglie. L’idea del corto viene però alla figlia della Cardinale, Claudia Squitieri (della Fondazione Claudia Cardinale), che vedendo alcuni lavori di Perrone gli propone «di realizzare un ritratto poetico della madre». Da lì, è partita l’avventura: «Abbiamo girato ‘Un cardinale donna’ in Francia, fra Natale e Capodanno, con mia figlia nei panni di una suora bebè», frammezzando prove e riprese con calamari farciti «di cui ancora oggi Claudia mi parla». Poi è arrivata l’idea di proporre il lavoro al Moma come corto introduttivo alla retrospettiva: da lì sappiamo come è andata.
Claudia Cardinale (seduta) in una scena del cortometraggio ‘Un cardinale donna’
Anche «il mio arrivo nel cinema è stato per errore. Nel 2004, appena dopo la crisi economica sono partito per l’Argentina dove facevo teatro di strada, a Buenos Aires: dovevo fermarmi per qualche mese, ma poi sono rimasto per cinque anni». Là si è ritrovato a lavorare come assistente di registi della scena indipendente della post dittatura; ma anche nel teatro comunitario e popolare di quartiere. «Due mondi molto diversi e due esperienze che mi hanno fatto scoprire la drammaturgia. Uno dei progetti di teatro cui lavoravo vedeva un gruppo di quindici donne smemorate fra i 70 e i 90 anni: una volta sulla scena dimenticavano il lavoro assimilato durante le prove, questo mi ha imposto la ricerca di un nuovo linguaggio».
Nel 2010, è a Marsiglia (ci è andato a trovare il fratello e ci vive – «per errore» da tredici anni): «Lì, ho incontrato la realtà di Emmaüs e ho iniziato a collaborare con Médecins du monde. A Emmaüs mi è stato proposto di realizzare un film con chi orbita attorno all’associazione (‘Rêves d’occasion’)». Nel 2013, è fra i fondatori dell’Agence de l’erreur, una troupe cinematografica che realizza e produce film. La sua particolarità è il lavoro con persone cosiddette fragili: handicappati, marginali, malati mentali, giovani precari, vecchi. Fra le altre cose, l’agenzia organizza il Cappuccino Long Street Festival, dedicato ai micro-cortometraggi.
Il passaggio cruciale però è dal corto al lungometraggio: «Da tempo ho in testa un Don Chisciotte a Marsiglia: il mio grande amore arenatosi però col Covid. Avevo persino scritto a David Lynch proponendogli un ruolo, lui mi ha risposto declinando ma dicendosi molto lusingato (la mail l’ho appesa a casa)». Grazie a quel progetto il regista è selezionato al Lebanon Factory di Beirut, nel 2017. «Ho messo da parte il mio Don Chisciotte per concentrarmi su altro, che ha significato andare a riprendere la sceneggiatura per un lungometraggio che racconta la storia di un gruppo di suore che resiste fra le mura di un convento (di più, della commedia, non diciamo)».
E qui torniamo alla Cardinale che sarà fra le protagoniste di questo suo primo lungometraggio intitolato ‘L’ultima cena’ e, se tutto andrà come deve, girato a Locarno in autunno, che racconta la storia di un capannello di suore che resiste in un convento.
I conventi, racconta, sono per lui «luoghi molto particolari: nonostante siano parte della struttura patriarcale per definizione, ieri come oggi, sono laboratori di riflessione femminile molto acuta, basti pensare a personaggi come Hildegard von Bingen, Santa Teresa d’Avila… fra le più grandi pensatrici delle loro epoche. Mi diverte molto vedere come dentro a un’istituzione maschile come la Chiesa prosperi la riflessione femminile».
Che cosa ti muove? «Mi affascina molto andare a cercare che cosa crei l’immaginario collettivo, come la religione cattolica e il cinema… E più del prodotto finito mi interessa il percorso, durante il quale si crea comunione». I suoi chiodi fissi sono: «La vecchiaia, anche come forma di maschera (vengo dalla Commedia dell’arte), gli archetipi, gli oggetti che diventano metonimici e a volte impongono la narrazione. Questo perché hanno una grande potenza che non si può controllare fino in fondo. E il bello sta lì: è solo quando c’è trascendenza che c’è spazio per la magia», chiosa.
Per saperne di più: www.lerreur.fr.
(*poeta e cantore della tradizione orale nella cultura popolare africana; ndr)