Domenica a ‘Storie’ il percorso di Marta e Tazio dopo la tragica scomparsa del papà Erminio Ferrari, in un toccante documentario di Fabrizio Albertini
Grafia minuta, su una semplice busta. La dicitura: "Per quando muoio". Dentro, un foglietto: "Cari Tazio e Marta, vogliatevi bene e rispettatevi. Sappiate che solo l’amore e la giustizia possono rendere vivibile il mondo, e che la giustizia senza l’amore non è umana. Siate vicini alla Daniela, che vi ha amato come nessuno. Vi abbraccio, E.".
Non c’è niente da fare: qualunque cosa rimandi a Erminio Ferrari è fonte di poesia e meraviglia. Lo è nella tristezza di un testamento pieno d’amore messo giù in chissà quale circostanza della vita, probabilmente fra mille turbamenti. Un messaggio breve, essenziale, rivolto ai figli. "I figli di E.", appunto, da cui il titolo del commovente tributo d’amicizia realizzato per "Storie" dal regista cannobiese Fabrizio Albertini e prodotto da Michael Beltrami, programmato per domenica prossima, 5 febbraio, sulla Rsi.
"I figli di E." – così lui stesso usava abbreviarsi rivolgendosi a Marta e Tazio, che per abitudine non lo chiamavano "papà", ma per nome – come rappresentazione di un concetto che lo stesso Erminio aveva perfettamente esplicitato riferendosi «a vedove, fratelli, ma penso soprattutto ai figli» degli uomini periti nella tragedia di Robiei del febbraio ’66, cui Ferrari aveva dedicato il magistrale "Cielo di stelle", reportage nella memoria pubblicato mezzo secolo più tardi.
Figli, come aveva ricordato Erminio nel 2017, «che si erano trovati soli nell’immagine che di loro era stata data pubblicamente: "il figlio di". Per quanti di questi ragazzi, di queste donne, "figli di", quest’etichetta è rimasta un peso da portare, costringendoli a una solitudine di un ruolo che non si era cercato, anzi, ma era caduto addosso in una forma così tragica?». Era una perfetta sintesi di ciò che tre anni dopo sarebbe accaduto ai suoi, di figli, strappati all’affetto e al "mondo" di un padre a causa di una caduta in montagna, in Valgrande, occorsagli mentre era in compagnia di Marta. Sembra rubato a De André lo stupore che ancora oggi, ripensando alle assurde circostanze, confonde la figlia: «Forse è inciampato in qualche ciuffo d’erba».
Parte da lì, il viaggio di Albertini: dalla rievocazione di quel cammino in Valgrande, con l’arrivo in cresta, fra il Pizzo Marona e il Monte Zeda. Marta era già su, aveva sentito un grido, abbassato lo sguardo e osservato la peggiore delle immagini possibili: l’Ermi che cadeva.
Da lì in avanti, per lei e per Tazio, sono stati dolore, vuoto, tentativi di elaborazione: la casa di Cannobio piena di libri, congelata nel momento in cui l’Ermi ne era uscito con lo zaino in spalla; le scalate in solitaria di Tazio, guida alpina, la cui fisionomia e i cui gesti sono uno specchio del papà; ma anche le mucche, che Erminio aveva fortemente voluto «per prendersene cura, una volta in pensione, andando in baita a leggere e a scrivere», come ricorda Tazio. Mucche che sono rimaste incastrate nelle vite dei figli. "Mezzi", certo, per non disperdere la memoria, ma in primo luogo improbo impegno in una quotidianità altrimenti già piena e scandita: «Io sto bene quando sono lì – dice Marta –, ma non è la mia vita».
Quale sia oggi la vita di Tazio e Marta, "figli di E.", rimane domanda sospesa, dolorosa nei suoi contorni, esattamente come la legittima esigenza di guardare avanti. Dice Marta che «ci sono giorni in cui io mi dimentico di lui e poi è come se mi sentissi in colpa ad andare avanti a vivere la mia vita. Non sentirmi libera di poter vivere la mia vita perché mi sento come in dovere di parlare, di pensare, di portare avanti quello che era lui e la sua persona».
Una persona e una personalità straordinaria, anche complessa nel raro connubio fra profondità di pensiero e leggerezza nei rapporti, compresi quelli, impagabili, con noi della redazione, che Erminio lo "sentivamo" senza bisogno che proferisse parola. «Ma quelle poche che diceva erano quelle giuste», sintetizza Tazio nel documentario, emozionandosi.
Parole giuste come quelle che scriveva. O diceva, se sentiva il bisogno di condividerle. Quelle su se stesso e il suo "habitat", pronunciate un giorno alla radio, sono un breve trattato che sa di muschio e di betulla, e che apre a un orizzonte insieme limpido e sofferto: «La mia esistenza individuale si svolge in un posto colmo di natura e di paesaggio. Una natura purtroppo, forse, non di contemplazione, ma che svela piuttosto le contraddizioni dell’essere in questo paesaggio. È una bellezza che rimanda a una dimensione nostra della vita in cui il confine fra un sentimento di dolore e un sentimento di serenità è molto labile. Il paesaggio io lo intendo in questo modo: molto più specchio degli occhi di chi lo osserva, che elemento da osservare».
Se "Figli di E." riesce a distinguersi per sensibilità, ampiezza di "respiro" e capacità di indagine interiore è certamente grazie alla capacità del regista Fabrizio Albertini di coniugare il suo sguardo esterno a un’antica amicizia con i protagonisti. «La loro dimensione familiare, con Ermi, l’ho conosciuta sin da piccolo – dice alla ‘Regione’ –. Sono amico di Marta e Tazio, che è anche mio coetaneo. Nel tempo il contatto è rimasto e recentemente, nell’ambito della mia collaborazione con "Storie", avevo pensato di coinvolgere Erminio in una produzione che fosse dedicata al territorio». Dopo la tragica scomparsa di Ferrari, prosegue Albertini, «ho mantenuto la volontà di realizzare qualcosa in quell’ambito, cercando di dare una continuità al discorso che avevo avviato con lui. A Tazio e Marta ho chiesto di darmi una mano».
Iniziando il documentario, prosegue, «è successo quello che accade con frequenza: ovvero che si parte con un’idea di percorso possibile, ma nel confronto con le persone e le loro vite quest’idea cambia. Non ho mai pensato di fare un documentario sul lutto, ma il vuoto lasciato da Erminio nei figli era talmente grande da decidere di seguire in modo molto naturale Tazio e Marta, cercando di mettermi il più possibile all’ascolto di questo loro momento in cui avevano a che fare con un’eredità sia molto pratica (le mucche da accudire, la raccolta postuma di racconti in pubblicazione) sia più intima. Credo che fare questa scelta mi abbia permesso di realizzare comunque un film su Erminio e sul suo lavoro, e forse anche in misura maggiore rispetto a quella che poteva essere l’idea di scrittura iniziale».
"Figli di E." è, dunque, «il frutto di un percorso durante il quale Tazio e Marta sono stati molto generosi, ognuno in linea con le proprie inclinazioni e le proprie scelte, ma sempre in un equilibrio familiare che mi sembra emerga bene dal film». Un equilibrio che si intuisce non sempre facile, ma tenuto insieme da espedienti simpatici come il chiamarsi vicendevolmente, tra fratelli, non "Marta" o "Tazio", ma più prosaicamente "Sfiga", come a voler abbattere sul nascere qualsiasi rischio di retorica (come Ermi insegnava).
Albertini nota poi due particolari coincidenze, «che mi hanno anche incoraggiato», emerse durante la lavorazione: «Prima ho realizzato immagini di vita contadina, seguendo un’anziana della Val Cannobina nei suoi ritmi e nelle sue abitudini legate al territorio. Nelle intenzioni doveva essere una presenza quasi rarefatta, che poi si sarebbe manifestata non lontano dal pascolo delle bestie dell’Ermi. Ma solo dopo mi sono reso conto che quelle immagini erano perfette in relazione a "Pronto soccorso", un racconto di Erminio pubblicato nel libro postumo "Ma liberaci dal male", di cui nel film ci sono ampie citazioni. Un’altra cosa sorprendente è che il giorno in cui nel film si racconta il trasferimento delle mucche all’alpe è stato il primo di una siccità che sarebbe durata per tutta l’estate; una siccità terminata esattamente il 2 settembre, l’ultimo giorno di riprese, quando siamo tornati al pascolo e abbiamo trovato una luce incredibile, quasi spettrale, che ci ha permesso di prendere delle immagini che avremmo poi capito essere quelle giuste da abbinare a degli estratti di "Fransè"».
Da rilevare infine l’ottimo lavoro al montaggio di Bettina Tognola: «È la quarta produzione in cui collaboriamo. Con lei c’è un’alchimia basata sull’ascolto delle reciproche esigenze. Il nostro rapporto si basa molto sulla concessione di quell’autonomia necessaria per lasciarsi sorprendere, e più in generale sulla fiducia». Evidentemente ben riposta, da entrambi.